Clinton vs Trump: globalizzazione vs protezionismo, guerra vs isolazionismo

Incombono le presidenziali che decideranno chi, tra la democratica Hillary Clinton ed il repubblicano Donald Trump, siederà nello studio ovale per i prossimi quattro anni: per la prima volta da decenni, la diversità tra i due sfidanti è sostanziale. Hillary Clinton è la rappresentate di quell’establishment liberal e basato sull’asse finanziario Londra-New York, che dai tempi del presidente Woodrow Wilson è paladino dell’interventismo e della globalizzazione economica. Donald Trump, al contrario, appartiene a quel filone isolazionista che affiora come un fiume carsico nel partito repubblicano: la sua vittoria è l’ultima occasione per evitare che il confronto tra gli Stati Uniti e le potenze emergenti degeneri in un’escalation militare.

Democratici, il partito dell’interventismo

Si avvicinano le elezioni negli Stati Uniti e, per la prima volta da decenni, la sfida tra la democratica Hillary Clinton ed il repubblicano Donald Trump non è soltanto un pro forma, utile a regalare all’opinione pubblica la speranza del cambiamento e l’ebrezza del voto.

Il sospetto che la dialettica repubblicani-democratici serva soltanto a garantire una parvenza di democrazia è, in effetti, fondato, specialmente dopo l’avvicendamento di Barack Hussein Obama, e George W. Bush: all’indomani dell’11 Settembre un attonito generale Wesley Clarck sente dirsi che gli Stati Uniti entreranno in guerra con sette Paesi (Iraq, Siria, Libano, Libia, Somalia, Sudan ed Iran) ed a distanza di dieci anni si scopre che quelli risparmiati da Bush, finiscono nel mirino di Obama attraverso la Primavera Araba e lo Stato Islamico. Già, il Califfato: l’entità sunnita che avrebbe dovuto installarsi nel cuore del Levante balcanizzato, proprio come nei piani concepiti dai neocon nei lontani anni ’90. Certo, forse Bush avrebbe bombardato la Siria nel 2013 e rifiutato di firmare un accordo sul nucleare civile con l’Iran, ma Obama ha perseguito in fondo gli stessi interessi con mezzi diversi, fomentando la guerra tra sunniti e sciiti e forgiando l’ISIS.

Che dire dell’economia? La bolla dei mutui spazzatura esplode nell’ultimo scorcio dell’amministrazione Bush ed è il governatore della Federal Reserve scelto in epoca repubblicana, Ben Bernanke, l’uomo cui si affida Barack Obama per tirare l’economia fuori dalle secche della crisi. Come? Mandando in bolla i mercati finanziari con la politica dei tassi a zero, così da “generare sicurezza tra gli investitori ad alimentari i consumi”: poco importa se i principali beneficiari dell’operazione sono quelle stesse banche che hanno inondato il mercato di prodotti finanziari infetti. Dopotutto tra i principali finanziatori della campagna elettorale di Obama figuravano JP Morgan e Goldman Sachs: già, Goldman Sachs, ai cui vertici aveva seduto Henry Paulson, il Segretario del Tesoro che gestisce il fallimento di Lehman Brothers sotto la presidenza di George Bush. E così via, in una costante serie di rimandi, quasi che l’amministrazione democratica avesse ricevuto il testimone direttamente da quella repubblicana.

Qualcuno farà giustamente notare: è risaputo che la “democrazia” (come, peraltro, qualsiasi altro regime) è concepita per preservare gli interessi della classe dirigente ed è inutile aspettarsi profonde fratture.

Le elezioni americane del 2016 potrebbero rappresentare un’eccezione sotto questo aspetto: dopotutto anche la storia evolve. Ci deve essere qualche ragione se tutto l’establishment americano, compreso il clan Bush ed i maggiori esponenti neo-conservatori (lo storico Robert Kagan, l’ex-direttore della CIA Robert Gates e qualsiasi altra figura sensibile agli affari esteri) si siano espressi a favore di Hillary Clinton. Qualche lato di Donald Trump deve essere avvertito come una vera minaccia, e non sono di certo le battute salaci. Nessuno, a questo proposito, è stato più chiaro dell’ex-direttore della CIA, Robert Gates, che, intervistato dal Wall Street Journal, ha dichiarato1:

“Trump è irrecuperabile. Si ostina a non voler sapere nulla del mondo e di come guidare il nostro Paese e il governo, ed è caratterialmente inadatto a guidare donne e uomini in uniforme. Non è qualificato ed è inadatto a essere commander-in-chief.”

Un candidato che non voglia sapere nulla del mondo esterno è perfettamente idoneo a guidare gli USA (e non sarebbe il primo), purché la sua agenda sia tutta incentrata sulla politica interna e releghi gli affari esteri in secondo piano. Così facendo, Donald Trump riallaccerebbe semplicemente i fili con una tradizione che risale alle origini degli Stati Uniti.

Fu un approccio a lungo adottato grazie alla natura “insulare” degli USA e che trovò proprio tra le fila del partito repubblicano i maggiori sostenitori per tutta la prima metà del Novecento e persino nell’immediato dopoguerra, quando i sovietici erano ancora “alleati”. Furono i cosiddetti “isolazionisti” che ebbero nel senatore Robert Taft (1889-1953) il loro indiscusso campione: più di una volta Robert Taft cercò di conquistare la candidatura repubblicana alla Casa Bianca, schierandosi ora contro l’ingresso degli USA nella Seconda Guerra Mondiale, ora contro la NATO, ora contro la guerra in Corea, ora contro qualsiasi provocazione che deteriorasse i rapporti con Mosca.

Essendo ancora fresca la memoria di George W. Bush e delle sue disastrose campagne mediorientali, si è incline a considerare il partito repubblicano come il paladino degli interventi militari e dell’ingerenza negli Stati terzi. La famiglia Bush, spesso identificata con il partito repubblicano benché abbia caratteristiche più simili all’establishment liberal (Bush Senior è il rampollo di una ricca famiglia dell’East Coast, educato a Yale e fattosi le ossa come ambasciatore all’ONU), è in realtà un’eccezione.

La storia dice esattamente l’opposto: democratico fu il presidente Woodrow Wilson che portò in guerra gli Stati Uniti nel 1917, democratico fu il presidente Franklin Delano Roosevelt che fece lo stesso nel 1942, democratico fu lo scialbo Harry Truman che sganciò le atomiche sul Giappone e diede il nome all’omonima dottrina per il “contenimento” degli ex-alleati sovietici, democratico fu Lyndon Johnson cui si deve l’escalation in Vietnam, democratico fu Jimmy Carter che strinse l’alleanza con l’islam radicale in chiave anti-russa (vedi invasione dell’Afghanistan), democratico fu infine Bill Clinton, grazie a cui per la prima volta dal 1945 i bombardieri tornarono in azione nei cieli d’Europa (vedi guerra in Bosnia e Kosovo) e sotto cui nacque Al Qaida (attentati alle ambasciate di Tanzania e Kenya del 1998) che avrebbe poi “sferrato l’attacco” dell’11 Settembre. Nulla fu l’opposizione democratica all’invasione dell’Afghanistan nel 2001 (una riproposizione delle guerra afghane dell’Ottocento con cui l’impero britannico cercò di incunearsi in Asia centrale in chiave anti-russa) e molto modesta a quell’Iraq nel 2003, tanto che Hillary Clinton si espresse a favore.

Tanto il partito democratico tende verso l’interventismo militare, quanto il partito repubblicano (depurato dal clan Bush), tende a ripiegarsi nei confini americani e a cercare un modus vivendi con l’esterno: furono i repubblicani i più convinti assertori del protezionismo che consentì agli USA di industrializzarsi, fu il repubblicano Warren G. Harding che nel primo dopoguerra si espresse contro l’ingresso degli Stati Uniti nella nascente Società delle Nazioni (primo abbozzo massonico di governo mondiale, cui seguì l’ONU), fu il repubblicano Richard Nixon a compiere nel 1972 lo storico viaggio a Mosca che sancì la coesistenza pacifica tra i due blocchi, fu il repubblicano Ronald Reagan che nel 1985 inaugurò la stagione del disgelo incontrandosi a Ginevra con Gorbacev.

La spiegazione del fenomeno va ricercata nella natura stessa del partito repubblicano: essendo il “Grand Old Party”, quanto di più simile esiste negli Stati Uniti ad una formazione nazionalista (l’elettore medio è bianco e vive negli Stati centrali), tende ad adottare una realpolitik, se un isolazionismo tout court, che consenta di non disperdere preziose energie al di fuori del Paese e godersi lo “splendido isolamento” degli Oceani.

Il partito democratico, al contrario, radicato tra le minoranze (ebrei, ispanici ed afroamericani) e negli Stati che affacciano sull’Atlantico, è una formazione progressista ed animata da sentimenti umanitari, caratteristica che lo rende più permeabile a quei circoli dell’alta finanza cosmopolita, che vivono sull’asse Londra-New York e posseggono anch’essi di un’agenda liberal di portata mondiale, non sempre in sintonia con quelli che sarebbero gli interessi statunitensi.

Facciamo qualche utile esempio: nell’immediato dopoguerra il principale sostenitore  di un’Europa federale, tema caro alla finanza internazionale sin dagli anni ’20, è il senatore democratico James William Fulbright (1905-1995). Il presidente che caldeggia l’ingresso della Cina nell’Organizzazione mondiale del commercio, decisione che velocizza la scomparsa dei colletti blu americani a tutto vantaggio del grande capitale, è il democratico Bill Clinton. È sempre Clinton che nel 1999 regala a Wall Street l’abolizione dello Glass-Steagall Act, la norma introdotta nel 1933 che, imponendo la separazione tra banca d’investimento e banca commerciale, avrebbe potuto contenere la crisi dei mutui spazzatura. È il democratico Barack Obama che introduce in America i matrimoni omosessuali ed allarga le assicurazioni dei dipendenti ai contraccettivi ed all’aborto, secondo la logica malthusiana che anima la cricca di George Soros.

Radicato negli Stati che affacciano sull’Atlantico ed animato da ideali “progressisti”, il partito democratico è il prediletto di quell’establishment angloamericano, elitario e sfornato dalle più prestigiose università inglesi ed americane, che ha progressivamente preso il controllo del Dipartimento di Stato americano e conduce spesso la propria politica estera, spesso indipendentemente da chi siede alla Casa Bianca: sono gli eletti che si riuniscono a Londra alla Chatham House ed a New York al Council on Foreign Relations, controllando testate come il New York Times, il Financial Times, The Economist, TIME, etc. etc. È l’establishment del “Nuovo Ordine Mondiale” e della globalizzazione sfrenata, lo stesso che oggi si indigna per la rivolta della classe media che, dopo anni di impoverimento, vota per i “partiti populisti”.

È anche l’establishment che, in piena continuità impero britannico, si contraddistingue per due peculiarità: la simpatia per l’islam politico (la Fratellanza Mussulmana e l’estremismo sunnita) e l’avversione alla Russia, considerata una minaccia strategica agli interessi angloamericani in Europa e Medio Oriente. Il partito democratico è in sostanza quello più incline ad agire secondo la volontà di una ristretta minoranza anglofona ma non “yankee”, che nulla ha che fare gli interessi prettamente statunitensi: che vantaggio hanno avuto gli elettori americani dalla guerra in Kosovo voluta da Clinton, o dal cambio di regime operato in Libia da Barack Obama?

Questo è lo schema in cui va inquadrato lo scontro tra Hillary Clinton e Donald Trump: globalizzazione versus protezionismo, interventismo versus isolazionismo, élite cosmopolita versus “nazionalisti” statunitensi.

Trump, l’uomo che smantellerà l’impero

L’impero angloamericano ha raggiunto un stato di decadenza così avanzato da rendere necessarie scelte drastiche: o un drastico ridimensionamento (lasciando che il vuoto sia colmato da altri) o una guerra preventiva contro le potenze emergenti (Russia, Iran e Cina). Trump è il candidato della prima opzione, la Clinton della seconda, e ciò spiega perché sia confluita verso la candidata democratica anche una parte importante della nomenclatura repubblicana.

L’intenzione di Donald Trump di voler sforbiciare gli impegni degli USA all’estero è inequivocabile.

“L’alleanza” col Giappone e la Corea del Sud? Troppo onerosa e manca l’impegno alla reciproca difesa: le basi militari andrebbero chiuse a meno che Tokyo e Seul non ne coprano una parte consistente dei costi. Anzi, un Giappone senza l’ombrello nucleare americano e dotato di atomiche proprie, sarebbe ancora meglio2. Il dittatore nordcoreano Kim Jong Un? Si potrebbe invitarlo alla Casa Bianca per negoziati, ma è meglio passare la patata bollente dell’atomica nordcoreana direttamente alla Cina. I Paesi Baltici? L’impegno della NATO a difenderli in caso di ostilità con la Russia non è automatico: anzi la stessa organizzazione Nord Atlantica comporta ormai “tremendous cost” 3(il giornalista del New York Times che ha raccolto questi pensieri di Trump ha probabilmente rischiato l’infarto). La Turchia? Erdogan è da ammirare per come s’è le cavata col colpo di Stato (“I give great credit to him for being able to turn that around”) e non bisogna impuntarsi sui diritti civili, perché anche gli USA hanno enormi problemi di sicurezza. L’Egitto? Il presidente egiziano Al-Sisi è un “fantastic guy” ed incontrandolo Trump ha percepito un “good feeling” (la banda di Amensty International e Repubblica deve essere inorridita).

Ma è ovviamente la Siria il dossier più scottante: qui Trump ribalta di 180 gradi la politica sinora sostenuta dall’amministrazione di Barack e da Israele per rovesciare Bashar Assad, basata sul sostegno all’ISIS e sulla fornitura di armi sempre più sofisticate ai gruppi islamisti. “Assad is bad. Maybe these people could be worse”, “Assad è male. Forse gli altri sono peggio”, ha affermato candidamente Trump, negli stessi giorni in cui i media imbastivano la campagna di Aleppo “nuova Sarajevo” che, in caso di vittoria di Hillary Clinton, spianerebbe la strada all’intervento militare.

Sforbiciato l’impero e ridotte le spese militari, si liberebbero finalmente quelle risorse per ricostruire gli Stati Uniti che, secondo Trump ed i dati statistici lo confermano, stanno letteralmente cadendo a pezzi in termini di infrastrutture. L’adozione di una serie di misure protezionistiche mettere poi il manifatturiero al riparo dalla concorrenza internazionale, generando occupazione e redditi per la classe media che, dopo aver costituito la spina dorsale degli USA, rischia oggi l’estinzione: è questo il nocciolo “dell’America first”, chiaramente espresso da Trump in un’intervista al Washington Post:

“We have no money for education, because we can’t build in our own country. And at what point do you say hey, we have to take care of ourselves. So, you know, I know the outer world exists and I’ll be very cognizant of that but at the same time, our country is disintegrating, large sections of it, especially in the inner cities.”

Il discorso è diametralmente opposto per Hillary Clinton, la cui azione sarebbe completamente assorbita dalla politica estera, portando alle estreme conseguenze la politica di ostilità contro la Russia e la Cina: si tratterebbe, sfruttando come casus belli la Siria, di quella guerra preventiva (cui dedicheremo uno dei prossimi articoli) con cui l’impero angloamericano declinante affronterebbe in campo aperto gli sfidanti, finché ha ancora le capacità di vincere un conflitto convenzionale. 

Già, la Russia. Hillary Clinton, da vera esponente di quell’establishment liberal, è per natura allergica a Mosca, o perlomeno ad una Mosca che esprima come oggi una politica estera indipendente, ponendosi in diretta concorrenza agli angloamericani in Europa ed in Medio Oriente: il peggior incubo geopolitico per Londra e Washington, reso oggi possibile dall’assenza di una barriera ideologica come il comunismo, è che si crei un asse tra Mosca e le cancellerie occidentali (già lo zar Paolo I fu assassinato per mano inglese a causa delle sue simpatie per Napoleone).

All’inizio del fatidico 2011, quando Hillary Clinton siede ai vertici del Dipartimento di Stato ed il Mediterraneo è già in subbuglio per le cosiddetta “Primavera Araba”, è sferrato un primo attacco: il 24 gennaio una bomba di matrice islamista esplode all‘aeroporto moscovita di Domodedovo, uccidendo 37 persone. Trascorrono pochi mesi e si replica: due lupi solitari piazzano nella metropolitana di Minsk un ordigno che deflagra l’11 aprile, uccidendo 15 persone. Nell’autunno, quando mancano ormai pochi mesi alle presidenziali cui Vladimir Putin si è ricandidato, c’è il salto di qualità, tentando la classica rivoluzione colorata: decine di migliaia di persone sfilano nella strade di Mosca, gridando slogan contro Putin. L’interessato non ha dubbi: a fomentare i disordini è stata Hillary Rodham Clinton, che ha “attivato” il suo personale in Russia4.

Gli anni trascorsi lontani dalla Casa Bianca non hanno minimamente smorzato l’acredine. Quando a luglio appaiono sul sito Wikileaks le imbarazzanti email sottratte al Comitato nazionale dei democratici, la Clinton attacca senza esitazione: “Sappiamo che sono stati i servizi segreti russi e sappiamo che hanno organizzato anche la diffusione di quelle mail”.5 

Il braccio di ferro in Siria non ha sicuramente giovato a migliorare i rapporti tra la Clinton e Putin. Più volte abbiamo sottolineato nelle nostre analisi come la “Primavera Araba” che esplode nei primi mesi del 2011, quando Barack Hussein Obama siede alla Casa Bianca e Hillary Clinton al Dipartimento di Stato, non fosse altro che la riproposizione in salsa mediorientale delle solite rivoluzioni colorate della rete Otpor!/CANVAS/CIA. Dove l’apparato di sicurezza è controllato dagli angloamericani (Egitto e Tunisia), il cambio di regime è dolce, mentre dove l’apparato militare oppone resistenza (Libia e Siria) si interviene con i bombardamenti NATO o le operazioni sporche della CIA. Le operazioni non filano però sempre senza intoppi: nel settembre del 2012 l’ambasciatore (agente CIA?) Christopher Stevens, che supervisiona il trasferimento dei missili anticarro dalla Libia alla Siria attraverso navi turche6, è ucciso in un assalto al consolato americano di Bengasi, generando non poco imbarazzo per il Dipartimento di Stato e la Clinton.

L’obbiettivo delle Primavere Arabe non è quello di traghettare i Paesi Arabi verso la democrazia, bensì quello di portare al governo l’intollerante ed oscurantista islam politico della Fratellanza Mussulmana, così da fomentare gli odi religiosi e precipitare nel caos la regione: non avendo più le forze per esercitare un controllo diretto, gli angloamericani scelgono di lasciarsi alle spalle terra bruciata, con il beneplacito di Israele che ha solo da guadagnare da una lotta fratricida tra arabi. Una delle innumerevoli email di Hillary Clinton disponibili su Wikileaks, datata luglio 2012, è particolarmente preziosa perché descrive esplicitamente la strategia, tesa a fomentare una guerra settaria tra sciiti ed estremisti sunniti7:

“If the Assad regime topples, Iran would lose its only ally in the Middle East and would be isolated. At the same time, the fall of the House of Assad could well ignite a sectarian war between the Shiites and the majority Sunnis of the region drawing in Iran, which, in the view of Israeli commaders would not be a bad thing for Israel and its Western allies. In the opinion of this individual, such a scenario would distract and might obstruct Iran from its nuclear activities for a good deal of time. In addition, certain senior Israeli intelligence analysts believe that this turn of events may even prove to be a factor in the eventual fall of the current government of Iran.”

Si potrebbe credere che Hillary Clinton mantenga i rapporti con la Fratellanza Mussulmana attraverso il Dipartimento di Stato e la CIA, oppure avvalendosi dei servizi segreti inglesi che sono i massimi conoscitori di estremismo sunnita (avendolo già impiegato ai tempi dell’impero britannico, ora contro i nazionalisti egiziani, ora per installare i Saud alla guida dell’Arabia Saudita). Invece, c’è un filo diretto che unisce la Clinton alla Fratellanza: una delle sue assistenti più intime è la mussulmana Huma Abedin, il cui fratello, Hassan Abedin, lavora presso l’Oxford Center for Islamic Studies8, a sua volta strettamente collegato all’università egiziana Al-Azhar, culla della Fratellanza Mussulmana.

Russofoba e filoislamista, Hillary Clinton avrebbe potuto essere un ottimo funzionario dell’impero britannico ai tempi della regina Vittoria: è invece la candidata alle imminenti presidenziali statunitensi in una congiuntura internazionale critica. Non resta che sperare nella vittoria del “nazionalista” ed “isolazionista” Donald Trump che, anteponendo gli interessi del popolo americano a quelli di una ristretta oligarchia, può scongiurare il peggio.

Immaginetrump

 

1http://www.ilsole24ore.com/art/mondo/2016-09-20/no-trump-vecchio-bush-vota-hillary-clinton-095049.shtml?uuid=AD9TSnNB

2http://www.japantimes.co.jp/news/2016/08/06/national/politics-diplomacy/trump-rips-u-s-defense-japan-one-sided-expensive/#.V-zUtPCLTIU

3http://www.nytimes.com/2016/07/22/us/politics/donald-trump-foreign-policy-interview.html

4http://www.nytimes.com/2011/12/09/world/europe/putin-accuses-clinton-of-instigating-russian-protests.html

5http://www.repubblica.it/esteri/2016/07/31/news/stati_uniti_clinton_punta_il_dito_contro_mosca_hacker_russi_dietro_furto_mail_al_dnc_-145140343/

6http://www.foxnews.com/politics/2012/10/25/was-syrian-weapons-shipment-factor-in-ambassadors-benghazi-visit.html

7https://wikileaks.org/clinton-emails/emailid/12171

8https://www.jstor.org/stable/20837256?seq=1#page_scan_tab_contents

33 Risposte a “Clinton vs Trump: globalizzazione vs protezionismo, guerra vs isolazionismo”

  1. Le lobbies intellettuali non permetteranno a Trump di sconvolgere i loro piani. Se dovesse vincere, lo faranno fuori con qualche scandalo o, al peggio, in una Dallas II.

  2. Articolo superbo e illuminante, come sempre del resto.
    Mi viene solo una domanda: considerati gli immensi interessi in gioco, considerati i potentissimi attori in gioco, considerata la massiccia e costante demonizzazione di Trump, possiamo aspettarci che le elezioni si svolgano in modo.. pulito?

  3. Non fatevi illusioni: se Trump dovesse vincere, si impegnerà nelle guerre che l’.establishment vuole.

    1. No, rappresenta un vero cambiamento, anzi, un ritorno alle origini isolazioniste degli USA.

  4. Spero che Trump vinca.
    Il vento è dalla sua parte, purchè continui a parlare di lavoro ed america first.
    Purtroppo, sessanta anni di maccartismo e fobia antirussa, non consentono di fare ragionamenti accettati dal popolo americano. Quindi, dovrà tenere basso il profilo sulla politica estera, mettendono in evidenza solo i costi esagerati e chiedendo i contributi degli alleati. Questo è popolare.
    Due mesi fa, i polls su Clinton erano tutti a suo favore. Aveva addirittura oltre 300 voti elettorali. Adesso è a 200…e le hanno dat anche la florida che è toss up…
    Guardate le mappe elettorali di RCB Trum Clinton polls e verificate.
    Ci sono ben 15 stati in lizza da conquistare con i candidati più o meno in parità.
    Ma il vento sembra sostenere sempre più Trump.
    Non resta che assistere…
    L’articlo è chiarissimo e rispecchia il problema di fondo. Diamo una lunga pausa alla globalizzazione. Dopo trenta anni, ne abbiamo bisogno.
    E’ ovvio, che i neocon- per cui il problema di fondo è “vendere-comprare” come nella famosa barzelletta yddish, non sono d’accordo.
    Complimeti Dezzani.

  5. C’e’ poi quello che ha detto Newt Gingrich, una vecchia volpe repubblicana, in questo breve video: https://www.youtube.com/watch?v=dO-NA73FsW8 , He didn’t belong to the secret society, he is uncontrollable….
    Certo avere uno non ricattabile al “posto di comando” e’ destabilizzante per il potere…

    D’altro canto pero’, la sua candidatura si pone lunga la faglia tettonica della societa’ americana che alimenta i conflitti razziali, ideologici, culturali e religiosi alla sua base, e che e’ stata e sara’ ampiamente sfruttata dall’establishment mondialista attraveso le sue metastasi tipo “black lives matter”. … Credo comunque che in caso di vittoria il suo pragmatismo, se non la sua “onesta’”, lo indurranno a provare a ricucire la ferita, ma dovra’ affrontare la prevedibile reazione piu’ o meno colorata del potere mondialista, che portera’la “rivoluzione” e la “guerra” all’interno stesso dell’america.
    In fondo ad esso, il potere, non importa nulla dei popoli, se non come funzioni, e non credo importi nulla a quello che chiamiamo l’establishment aglo-americano, degli angli e degli americani… che ben si massacrino tra di loro…

    C’e poi la relazione di Trump con Israele e il sionismo, apparentemente Trump considera Israele un modello, rappresenta lo stato che meglio sa sa badare agli affari propri, tanto da arrivare a dire di riconoscere ufficialmente Gerusalemme come sua capitale… Sembra voglia emulare il modello Israele per la gestione dei suoi affari interni, la famosa sicurezza, applicandolo alla gestione “sicura” degli affari interni americani… Tutti sappiamo quanto e’ velenoso questo modello, tanto velenoso, che qualcuno di “loro”, non ricordo chi, l’ho ha suggerito anche per l’Europa…
    Non so cosa pensare di questo ma di sicuro non e’ tranquillizante, non so neache se sia frutto di confenienze tattiche o sia una sua convinzione…
    Da notare pero’ che i donatori ebrei supportano massivamente la Clinton, con un rapporto di 20:1.

    Spero comunque Trump vinca… qualcosa, di buono, puo’ succedere.

  6. Trump in politica estera è leggermente meno peggio della Clinton, ma è molto anti-cinese e spostera probabilmente nel Pacifico il focus della politica estera USA. Poi ha gia cambiato idea su ad esempio Israele, lo potrebbe fare comodamente anche sulla Russia.

      1. Non è che i Cinesi preferiscono Trump, semmai sono sicuri che la Clinton porti alla terza guerra mondiale sul serio, mentre forse Trump puo essere comprato con qualche affare che giovi a lui personalmente. Non dimenticare che la ragione che Trump vuole un accordo con la Russia sta nel fatto che vuole fare business in Russia. A proposito Federico, cosa ne pensi della tesi che Trump potrebbe mandare i carri armati in Messico?

        1. I carri in Messico? Ma se, a differenza della Clinton, ha accettato l’invito del presidente messicano Nieto per un faccia a faccia!

  7. Buongiorno e complimenti al Dezzani che ci ospita.
    Vi ricordate dei discorsi “chiagneno e fottono” e “facìte ‘a’faccia feroce” e “le volpi e l’uva” sul petrolio?
    Bene. http://www.repubblica.it/economia/2016/09/28/news/petrolio_accordo_all_opec_su_produzione_vola_greggio-148717818/?rss
    Abbiamo le conferme.
    1. Aramco in realtà non paga il conto più salato ma cerca di atterrare morbidamente, visto che Ghawar gli si sta riducendo nella produzione di “primo dominio storico-geologico”, e dovrà attendere i tempi della cherogenesi perché gli si ricarichi dal mantello sottostante, senza spendere in nuove e più profonde trivellazioni. Quidi 400 kBarrels/day li DOVEVANO ridurre comunque.
    2. Volete parlare degli altri? L’Iraq sapete in che stati è, industrialmente, dopo guerra civile. Dobbiamo menare il can per l’aia libica o citare Boko Haram? La produzione persiana cerca di risollevarsi geoindustrialmente dagli extracosti delle sanzioni (e deve tenere i prezzi bassi nel “mercato” interno. Ebbi conferma in tempi non sospetti dal mio Servizio Info recatovisi di persona nel 2012).
    3. Attenzione che la discesa da 33,2 ai 32,5 MB/day riguarda SOLO il Cartello OPEC. Se correlate su un grafico “supply/demand” il totale del mercato dei liquidi mondiale, scoprite che fino ai 75-80 MB/d l’elasticità è garantita. Oltre non più (e ci marcia la speculazione, pure). Va tenuto conto che il greggio non ha SOLO utilizzi energetici (pensate a tutta la petrolchimica).
    4. Per quanto riguarda l’energia elettrica, la forma più pregiata e meglio legata allo sviluppo umano, ormai anche McKinsey dà dei forecast di copertura negli OCSE anche fino al 50% colle rinnovabili (avete investito in minerarie del Litio?…). Quindi, al di là del https://it.wikipedia.org/wiki/Paradosso_di_Jevons , se ne faranno una ragione anche quelli del Goldman’s Reich. Se ho dato 2 € AL Nostro nipotino della Thatcher, valgono bene i 10 $ per Trump (ed i 12,5 $ per Sanders)
    5. DNFTT. IST

  8. Atlantisti e affini governano indisturbati dal 1989: muro di Berlino, internet, Wto, Glass-Steagall, ex Iugoslavia, 11/9, Euro, rivoluzioni colorate. Il mondo è cambiato molto ma nonostante ciò il grande progetto è più morto che vivo. Il Brexit ne ha definitivamente cambiato il verso, e le residue guerre ora servono a mascherarne il fallimento, economico e finanziario prima ancora che politico.
    La discesa in campo di Trump ricorda quella di Berlusconi: probabilmente si muove anzitutto per difendersi dalla recessione in arrivo. Per i democratici invece è essenziale poter gestire dai posti di comando il fallimento di un progetto che si è rivelato delirante. Gli isterismi Usa dei gg scorsi all’Onu danno un’idea del clima. Oltre che la bancarotta rischiano di finire sotto processo ovunque per ogni tipo di crimine. Bisognerebbe capire quanto sono forti gli alleati di Trump: ha contro gente che ha buttato giù le torri gemelle quasi per gioco.
    La realtà (l’economia reale) piano piano riprende il centro della scena. Russi e Cinesi, seduti in riva al fiume in compagnia delle loro scorte d’oro, probabilmente debbono solo resistere un’altro pò. Il problema è che gli atlantisti lo sanno bene.

  9. Ottimo articolo.
    Una domanda: è stata Killary Clinton a far assassinare l’ambasciatore Stevens?
    Grazie.

    1. La Clinton è indirettamente responsabile dell’omicidio: sapeva che la situazione a Bengasi stava peggiorando, ma ha giudicato il “lavoro” di Stevens più prezioso della sua vita. La maggior parte di razzi anticarro usati in Siria veniva dai depositi libici e Stevens era coinvolto nel traffico.

      1. M° Venerabile (o no…: ‘chissà chi lo sa…) Guénon docet. “Gli errori contrapposti – cito a braccio – sono la linfa del ‘wu-wei’, il motore ‘immobile’ che crea e distrugge”.
        Potrebbe questo esser a buona ragione lo slogan del marketing del Terrorismo sotto ogni bandiera, sotto ogni Storia, sotto ogni parallelo e longitudine. Ecco perché è ‘molto molto’ inutile cercar cupole, Grandi o piccoli vecchi, DIRETTORI D’ORCHESTRA o i ‘loro fidi maestri sostituti’, boss dei boss, o quant’altro in quanto quello che conta davvero è lo spargimento di sangue gratuito ed INNOCENTE. Ora la fa tizio, ora lo fa caio, sempronio sa di tutti e due ma caio non conosce né tizio né caio: sono solo ondine propagatesi da un sassolino primordiale sconosciuto a tutti. Il ‘wu-wei’ appunto.

  10. Potrebbe anche darsi che Trump non sia in realtà un isolazionista, ma che, come molti al pentagono, creda semplicemente che una guerra, adesso, non è conveniente e si rischia seriamente di perderla.
    L’incesto liberal/neocon dell’ultimo ventennio ha commesso errori madornali, che potrebbero rivelarsi letali per gli usa.
    L’11 settembre è servito anche per far schizzare in alto il prezzo del petrolio e fare arricchire la cricca di petrolieri e multinazionali legati all’amministrazione Bush, ma ha anche consentito la rinascita economico/militare della Russia, che si pone ora come un diretto antagonista.
    Le politiche liberal di massiccia delocalizzazione hanno spostato la produzione usa in Asia, confrontarsi militarmente con la Cina nei mari asiatici interromperebbe i traffici, con gravi ripercussioni.
    Inoltre, le economie usa e degli alleati sono disastrate, e gli eserciti non sono aggiornati alle nuove generazioni di armamenti, che in occidente si sono rivelate un flop (f35) , a differenza di altri che hanno sviluppato armi e tecniche innovative.
    Rinunciare all’impero mi pare eccessivo, forse Trump vuole solo prendere tempo per riorganizzarlo, rafforzarlo e prepararlo alla guerra.
    Clinton e i neocons sono dei pazzi.

  11. se e’ cosi’ ,o quantomeno , se eletto, non accettasse di divenire “ragionevole” , trump e’ un “uomo morto”.

  12. Comanda la storia e comandano le tendenze profonde.
    La globalizzazione è solo il luccichio fioco di tristi masse individualizzate durato 25 anni. Non lascerà nulla di pregevole.
    Il suo effetto?
    La distruzione dell’occidente. Il cui esito non sono le macerie delle città, ma la distruzione morale, intellettuale e demografica.
    Il mondo arabo nonostante le macerie non è stato distrutto. La ribellione alla Jihad del popolo siriano, iraqeno, libico ed egiziano è l’effetto della comprensione che i movimenti jhadisti sono l’altra faccia della globalizzazione anglo-sassone. Una nuova resistenza è sorta. Ed avrà effetti sull’Islam e la sua dottrina.
    La cartina al tornasole degli sviluppi è come i media rappresentano la guerra in Siria.
    L’ascesa di Trump è radicata in tendenze costanti ed insopprimibili non solo della grande isola fra i 2 oceani, ma di tutto l’occidente. Abbiamo assaggiato il potere dei banchieri. E ci siamo stancati.
    Ora altri andranno al potere.
    radek

  13. Onore al Tacito nuovo che Roma dona al mondo nonostante l’ultima punizione inflittale: quella di prenderle tutti i giovani e portarli proprio a loro servizio. Gli hanno pure dato il nome, gli eredi di Vittoria. Brain-drain. A voi pensionati e poveri africani affamati dalla mancanza di moneta e portati a Roma dalla @ItalianNavy. A noi i giovani di talento. E tutte ma proprio tutte le aziende che avete costruito quasi dal nulla quando a Roma c’era ancora il Papa, sconcertandoci. Il vostro Silvio ha compiuto 80 anni; Donald ne ha 70. Partiti entrambi come costruttori, entrambi si sono dedicati alla televisione. Formatori eccezionali, uno sconfisse in pochi mesi una nullità torinese, che il sardo che veniva da lontano per andare lontano aveva preparato a fondo; l’altro, sostenuto da un popolo in ginocchio, reso esangue al solito col debito e il divieto allo Stato di stampare il denaro, ha sconfitto alle primarie una decina di candidati gialli. “That’s the reality, baby, and there is nothing you can do”. Per i 70 anni della vittoria contro lo stesso identico avversario, aprendo la parata, il maresciallo cui è affidato l’Esercito più glorioso ha fatto quello che dovremmo fare tutti.

    1. Concordo con la conclusione di Willy e con il gesto di Serghey Shoygu all’inizio della parata per il 70 anniversario della vittoria nella grande guerra patriottica,ormai solo i ciechi non vedono che la lotta in atto e’ eminentemente spirituale,con buona pace di chi pensa/va che Dio fosse morto!

      1. Sono convinto che dai rapporti tra (una parte del)la City e l’ala Mondialista dell’establishment Americano ci dobbiamo aspettare qualche sorpresa.

  14. Ottima analisi come sempre, ma Trump non è uno che ha fatto gli studi dai Gesuiti? Quindi sarebbe un globalista, come il papa, favorevole alla globalizzazione, magari non come impero dominante, ma come mondo multipolare win/win alla Cinese.
    D’altrone dentro la casa bianca quelli che spingono sono forse ormai in minoranza, adesso che anche la City ha abbandonato Wall Street.
    Da vedere sui mercati che movimenti ci saranno lunedì, visto che da oggi lo Yuan entra ufficialmente nel paniere dei DTS, vedremo come e se sosterranno il dollaro.

  15. Trump andrebbe a sfidare un progetto che, attraverso le vicende che ricorda puntualmente Dezzani, negli ultimi 30 anni ha cambiato a fondo e assai in peggio i connotati al mondo. Una Cupola che ha una sua logica (perversa quanto si vuole), una lunga storia (Tremonti a Cernobbio si riferì alle guerre napoleoniche) e ancora infinite risorse e fanatici (alla Hillary) da mobilitare. Tutta la cosiddetta elite globale, dalla finanza internazionale ai grandi network delle news, dalle grandi aziende hi tech (Google ed Apple, via Amazon e Facebook) a Hollywood, dal complesso militare industriale alle grandi multinazionali consumer (Coke, Unilever…), una lista infinita di poteri, sarebbe contro Trump. Praticamente gli stessi nemici che ha Vladimir Putin (che però, come oppositore, oggettivamente è più strutturato). Non è un po’ surreale? Sembra l’ennesimo colpo di politica spettacolo: dopo il primo presidente nero e la prima (mancata) presidente donna, ecco il primo miliardario pazzo che salva gli Usa rubando ai ricchi (e ai signori di Betania).
    Non sono un complottista, e neanche un troll. Però, mi chiedo: oltre alla rispettabile tradizione isolazionista del senatore Taft, esistono, nell’occidente di oggi, poteri concreti e sufficientemente forti che possano sostenere Trump contro la Nato, l’Fmi, la Bis, il Wto, la Ue, L’Onu, L’Ocse, la Fao, l’Unicef, il Wwf e compagnia cantante? Quali sono questi poteri?

    Trump è senz’altro in gamba, e coraggioso, ma non è un Don Chisciotte né un pazzo. Appunto per questo, mi domando. Scusate il tono.

    1. Condivido i tuoi dubbi, ma ci sono probabilmente altre forze centrifughe in gioco, le multinazionali che hai citato si sono comprati le loro azioni in questi ultimi anni, per tenere le proprie quotazioni alte, (veramente pare le abbiano obbligate) visto che i prestiti sono a tassi bassi, quindi sono valutate al di sopra di quanto veramente valgono, un ridimensionamento del mercato è d’obbligo prima o poi, con i tassi bassi a lungo termine è chiaro che tutte le compagnie di fondi pensione e assicurazione non potrenno mantenere le clausole dei propri contratti di rendimento, sono forse già fallite e nessuno dice nulla.
      Rimango dell’opinione che Trump è comunque favorevole alla mondializzazione ma “multipolare”, ritirandosi da tutte queste guerre che hanno creato solo effetti negativi ovunque, per tagliare le spese e rilanciare l’economia interna.
      Se veramente ci sono poteri che stanno cambiando le cose, probabilmente sono in cima alla piramide e stanno “defenestrando” un livello sotto di loro che non ha fatto il proprio compito in questi ultimi anni se non depredare altri paesi e fare milioni di vittime, senza contare tutti i soldi che hanno rubato a casa loro.

      Ciao

      1. Il primo Bush yr aveva un programma simile a quello di Trump: rifocalizzazione sugli Usa con stop alla deindustrializzazione e ridimensionamento del ruolo commerciale della Cina. Pochi mesi dopo, il sassolino primordiale (ma organizzato bene) del 9/11 ha forse voluto far presente a tutti che c’erano altre priorità.
        Cmq dobbiamo sperare in Trump & Co (magari in questi 16 anni hanno anche fatto il vaccino contro il wu-wei).

  16. Ottima analisi, come sempre.
    Aggiungo uno spunto, una mia teoria: non dobbiamo immaginare gli Usa come un unico potere, con un’unica politica estera, ma come sede di PIU’ POTERI che portano avanti POLITICHE ESTERE DIVERGENTI.
    Mi riferisco a:
    – l’amministrazione del momento (ora Obama)
    – il Pentagono e la lobby militare
    – la Cia e i servizi segreti
    Questi poteri possono rappresentare visioni, interessi e strategie differenti, con alleati e nemici diversi. Basta vedere cosa accaduto in Ucraina, in cui sembrava che Obama fosse l’ultimo a sapere cosa organizzavano i suoi, o in Siria in cui la Cia sovvenziona gruppi ribelli diversi dai Curdi (emblematico l’attacco “per errore” contro l’esercito siriano che ha sabotato la recente tregua).
    L’impero americano va paragonato all’Impero romano degli utili secoli, quando più imperatori governavano contemporaneamente e si scontravano tra loro.

    1. A mio avviso i centri di potere “pubblici” sono tre:
      1. Casa Bianca
      2. Dipartimento di Stato
      3. Pentagono e CIA.

      Se vincesse Trump, credo che incontrerebbe un’aperta resistenza nel secondo e una potenziale ribellione nel terzo.

      1. scusate (Francesca e Federico) il ritardo.
        A rigore di post, l’elenco è praticamente il “minimo tecnico” delle istituzioni-establishment USA.
        Anche perchè, se cominciamo a contare NSA, DoD, FBI ed IRS, think-tanks (pensate solo alla PNAC) e lobbies varie (fino al dettaglio per “faglie etnico-religiose”) perdiamo il conto.
        Diciamo che, paretianamente, l’80% ci sarebbe, in quel 20%.
        Leggendo le ultime fresche di stampa potrei avanzare qualche osservazione che mescolerebbe ancora le carte:
        – al DoD, che ha sede al Pentagono, la burocratizzazione civile (con conseguente ingresso anche di signore sposate e con prole) e dei famigerati “consulenti esterni” degli staffs è diventata esagerata persino per… “rabbi” Zakheim (do you remember him?)
        – le (meno di) 180 B61 regolabili da 0,3 a 180 kT che attualmente abbiamo “shared” in casa, a Ghedi, Aviano, Ramstein e Buechel, Volkel, Kleine Brogel ed… Incirlik gli costano e ce lo faranno pesare (ma questo lo scrivevo già). Ora col Donaldo del clan MacLeod avrebbero la scusa politica per ritirarle tutte a casa (tanto ad Erdogan per tenerlo buono gli armano i Predator come alla Regina Coburgo-Gotha ed a noi).

        Ricordando il samizdat precedente, e’ vero: la NATO l’hanno voluta anche i nostri padri, al contrario della mafia, sono d’accordo.
        Al loro posto, avrei scelto probabilmente lo stesso “male minore”: accordarmi con una potenza “extraeuropea” e non-sciovinista e non-razzista (ho scritto… dei barbari transalpini e oltremanica? che volevano creare delle zone d’occupazione come minimo nella Padania? A proposito di occupati: sempre dalla stampa, la Luftwaffe lascia Decimomannu dopo ben 56 anni) come gli USA di Truman e del loro EUROPEAN Recovery Plan (e poi Eisenhover, alla stipula del Patto) piuttosto che “temporaneamente antieuropea ideologicamente” e decisamente provata dalla Grande Guerra Patriottica come l’allora CCCP staliniana.
        Ho cercato di sintetizzarVi un’analisi storica cernuschiana (il bravo Enrico, che scava negli archivi) di diversi volumi.
        Così come devo farVi utilizzare (anche) le spalle dell’Anelli per vedere meglio dalla distanza degli anni un fatto storico che è la controprova: il 3° sconfitto dell’Asse RoBerTo, non ebbe bisogno (e forse non volle, visto che regalò tutta la Manciuria dopo Hiroshima a Zukov in cambio del sacro suolo delle isole e per vendetta sui sacrifici umani dei bombardamenti) di “recovery plan”, che pertanto là non ci fu (la SEATO fu fondata a Manila nel ’54, ma Tokio non vi aderì).
        Grazie dell’ospitalità, DNFTT. IST

        1. ciao Federico.
          No, in verità. E colla vecchiaia invidio un po’ chi può partire dall’infanzia (in aree “confinarie” o già figli AIRE/Erasmus) con diversi registri linguistici (oltre ai bellissimi dialetti con cui riusciamo a distinguerci anche per pochi km).
          Gustatevi questo paper da Cà Foscari:
          http://www.unive.it/nqcontent.cfm?a_id=171041
          Da breve convalescenza, un augurio di 4 anni (e più!) di molto minore stress e di svolte nel tuo Gantt di buona vita

      2. tutti e 3 rispondono ai veri “decisori” , l’ unica differenza e’ che sul primo centro insiste una leggera “variabile elettorale” stante la decisione di costoro di mantenere ancora il “teatrino democratico”.

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