L’inarrestabile ascesa di Prigozin

Sul tentato “golpe” russo del 24 giugno permangono molti dubbi ed incertezza. È bene quindi soffermarsi su pochi punti fondamentali, utili a capire quanto è accaduto e ad immaginare gli sviluppi internazionali futuri: la natura oligarchica del regime putiniano, la marginalità acclarata delle forze armate, l’aleatorietà delle relazioni sino-russe, l’ascesa mediatica sempre più inarrestabile dell’oligarca Evgeni Prigozin.

Gioie trumpiane e dolori cinesi

Sabato 24 giugno, il mondo è stato tenuto col fiato sospeso dal tentato “putsch” del gruppo Wagner e del suo capo, Evgeni Prigozin. I mercenari della compagnia privata, forti di 25.000 uomini, hanno occupato la città di Rostov sul Don per poi iniziare una cavalcata verso Mosca che li ha portati a solo duecento chilometri dalla capitale. Il putsch voleva collocarsi, sin dalla prime fasi, alla destra dello scenario politico russo: una manovra degli elementi militaristi-nazionalisti, mirante ad un profondo ed aggressivo rimaneggiamento delle più alte cariche militari russe ed un nuovo corso alla guerra in Ucraina, finora condotta con mezzi fiacchi e risultati molto deludenti secondo i putschisti. Il “golpe” è finito della tarda serata del 24, grazie all’intervento del presidente bielorusso che ha mediato tra i rivoltosi ed il Cremlino: Prigozin avrebbe ottenuto un benevolo trattamento (l’esilio nella stessa Bielorussia), mentre i suoi soldati sarebbero stati in parte amnistiati ed in parte assorbiti dalle forze regolari russe.

Grande rimane l’incertezza attorno alla natura e ad al significato del putsch e, quindi, conviene focalizzarsi su pochissimi punti, utili a capire quando è accaduto e a prevedere i futuri sviluppi.

Punto 1: la natura oligarchica del regime putiniano. Sulla Russia di Putin e sulla evoluzione del ventennale governo dell’ex-spia del KGB, molto si è scritto. Alcuni oligarchi che imperversavano negli anni ‘90 sono stati ridimensionati (Mikail Chodorkovskij e la sua Jukos) e nuovi colossi a controllo statale sono stati consolidati (Gazprom). Il sistema è però sempre apparso come un ibrido Stato-oligarchie, dove hanno trovato ampissimo spazio anche le multinazionali stranieri, britanniche in primis (il colosso Rosfnet, partecipato al 20% dalla British Petroleum). Incredibilmente, il regime di Putin ha lasciato attecchire e prosperare le oligarchie private in un settore che, normalmente, è un monopolio dello Stato: la difesa e le forze di sicurezza. La compagnia privata “Wagner”, prima dislocata in Asia ed Africa e poi in Ucraina, è arrivata a contare un numero tale di uomini e una potenza politica tale da “attentare” alla sicurezza dello Stato. Fenomeno davvero curioso per un “dittatore” il cui obiettivo teorico era la resurrezione della potenza dello Stato russo. Elemento decisivo ai fini dell’analisi: Evgeni Prigozin ha mantenuto (e probabilmente mantiene) legami con la destra americana di Donald Trump e, in particolare, con Erik Prince, fondatore della potentissima compagnia militare privata Black Water/Academi, nonché consigliere dello stesso Trump.

Punto 2: l’ininfluenza delle forze armate russe. In quindici mesi di guerra, la Russia non è riuscita a produrre il nome di un brillante militare di successo, lo “Zukov” della guerra ucraina. Al contrario, i generali sono stati umiliati, rimossi, denigrati, eliminati sul campo in percentuali tali da destare sospetti e persino l’ipotesi che siano “liquidati” dagli stessi servizi russi per evitare sedizioni. È quindi naturale che le forze armate siano state le grandi assenti del “golpe” del 24 giugno. Non c’è traccia di una loro reazione in un senso o nell’altro e sembra che l’Esercito sia stato totalmente passivo nello scontro tra oligarchi.

Punto 3: i rapporti sino-russi e la loro dipendenza da Vladimir Putin. Il “putsch” del 24 giugno ha immediatamente messo in allarme Pechino che, a distanza di 24 ore, si è premurata di esprimere il suo impegno alla “stabilità e allo sviluppo” della Russia, frasi già sentite in occasione delle manovre anglosassoni contro Libia e Siria. Putin, a torto o a ragione, è infatti considerato l’uomo della collaborazione sino-russa, colui che sigillato “l’amicizia senza limiti” tra Russia e Cina. Forte è dunque il timore che indebolimento di Putin velocizzi la trasformazione della Russia da alleato della Cina a pedina delle potenze marittime anglosassoni contro la potenza euroasiatica litoranea emergente.

Punto 4: la costante ed inarrestabile ascesa di Evgeni Prigozin. Di questo oscuro personaggio, ex-detenuto, cimentatosi prima nella ristorazione all’ombra del Cremlino (gestiva il servizio delle mense militari) e poi nelle compagnie di ventura, si sapeva abbastanza poco fino all’altro ieri. Il suo nome era apparso nel “rapporto Mueller” sulle ingerenze russe nelle elezioni presidenziali americane e, in Italia, era sovente citato da Jacopo Iacoboni de La Stampa (Atlantic Council). È innegabile che il putsch del 24 giugno, oltre ad averlo reso famoso a livello globale, lo ha lanciato verso le più alte sfere della politica russa. È ormai facile intuire in che veste potrebbe partecipare alle elezioni russe del 2024: il candidato della destra estrema, il duce della “Vittoria Mutilata”, l’uomo che avrebbe potuto imprimere alla guerra in Ucraina un altro corso se solo avesse potuto agire. Ampie si prospettano le convergenze con la destra israelo-americana di Donald Trump, “russofila” e veemente anti-cinese.

In conclusione, il fallito putsch del 24 giugno sancisce la prima, vistosa, crepa del regime di Vladimir Putin. Tutto lascia supporre che il fallito golpe passerà alla storia come lo spartiacque che ha progressivamente spostato il focus dalla guerra in Ucraina alle ben più decisive relazioni tra Russia e Cina, da inserirsi nella prossima guerra degli anglosassoni al colosso asiatico.