Ritirata oltre il Dniepr: fine della “guerra del Kippur” ucraina

Mentre si contano le schede per il nuovo Congresso americano che sancisce l’inizio del declino di Biden e del partito democratico, Mosca ordina il ritiro delle ultime truppe sulla riva occidentale del Dniepr e dichiara di essere pronta a negoziati secondo “l’uti possidetis”. Prende così forma il grande accordo tra la Russia di Putin e le potenze anglosassoni: la prima guadagna il ponte terrestre con la Crimea e incassa i maggiori introiti derivanti al rialzo del prezzo degli idrocarburi, i secondi possono “chiudere” il fronte occidentale in vista dello scontro della Cina e strappano le destabilizzazione, probabilmente finale, della UE.

Mr. Kissinger, did it again!

Il 9 novembre (9/11) 2022, quasi certamente può essere considerato uno spartiacque nel “confronto” tra Russia ed Occidente in Ucraina: una fase, quella della presunta guerra per procura “senza esclusione” di colpi, si conclude, e ne inizia una nuova che, quasi certamente, culminerà tra un paio di anni con la vittoria repubblicana alle presidenziali americane ed il riavvicinamento, formale, tra la Russia di Putin e l’America “nazionalista”. Nel frattempo, fin da queste ore, diventa sempre più evidente l’inconfessabile e segreto accordo tra Putin ed anglosassoni che si è sempre celato dietro la “guerra” in Ucraina. Un accordo, supervisionato quasi certamente dal centenario Henry Kissinger, che fa del conflitto in Ucraina una sorta di “riproposizione” della guerra del Kippur del 1973, profittevole, in fondo, per tutte la parti coinvolte.

Andiamo con ordine. Fin dalle eclatanti vittorie riportate dagli ucraini nel settore di Charkov agli inizi di settembre, è emerso chiaramente che Mosca avesse ormai perso qualsiasi iniziativa strategica in Ucraina. Non solo: una lunga seria di elementi (la mancata distruzione dei ponti sul Dniepr, il mancato impiego dei bombardieri strategici, la mancata distruzione della logistica che portava le armi occidentali dalla Polonia al fronte, il ritardo nella mobilitazione totale, etc.) lasciava chiaramente intendere che Vladimir Putin non avesse mai davvero cercato una vittoria militare sul campo. La volontà, apparentemente inspiegabile, di mantenere il dispositivo militare a livello di “operazione speciale” oltre qualsiasi limite temporale ragionevole, indicava chiaramente che “l’allievo di Kissinger” si fosse accordato con gli anglosassoni per una guerra limitata, che garantisse qualche forma di guadagno ad entrambe le parti (e a discapito del resto del mondo).

L’andamento delle operazioni sul campo, già all’inizio di ottobre, consentiva agli analisti più lungimiranti (cioè, noi), di capire quali fossero i termini di questo accordo inconfessabile tra Putin ed anglosassoni. Dopo essersi ritirato da Charkov, Putin si sarebbe ritirato anche dalla sponde occidentali della foce del Dniepr, abbandonando Kherson e sopratutto abbandonando qualsiasi rivendicazione su Odessa. In sostanza, Putin si sarebbe accontentato del ponte terrestre con la Crimea e della città di Mariupol (obiettivi, probabilmente, ottenibili nel 2014 senza alcuna guerra), lasciando il resto dei territori occupati agli ucraini. Così è puntualmente stato: il 9 novembre, il ministro della Difesa russo ha infatti ordinato il ritiro dalla riva occidentale del Dniepr e le autorità russe hanno esplicitamente dichiarato di essere pronte ai negoziati secondo “l’uti possidetis”. Come un moderno presidente egiziano Anwar Sadat, Putin può quindi vantare alcuni ingrandimenti territoriali tali da consentirgli la permanenza al potere e, sopratutto, può, insieme alla cerchia di oligarchi a lui vicina, incassare gli enormi profitti derivanti dall’impennata del prezzo del gas e del petrolio.

Se non è difficile individuare i “guadagni” di Vladimir Putin derivanti dal conflitto “controllato” in Ucraina, è ancora più facile elencare quelli degli anglosassoni, che possono vantarsi di aver riportato una vittoria pressoché totale. Più volte si è scritto quali siano i risultati ottenuti dalle potenze anglosassoni, ma giova ancora ricordarli: la penisola scandinava e l’Ucraina sono state attirate nell’orbita della NATO, un agguerrito vallo è stata edificato dal Mar Baltico sino al Mar Nero, il nocciolo dell’esercito russo è stato distrutto, enormi guadagni sono stati garantiti alle major americane che esportano gas liquido e petrolio, l’Europa (Germania e Italia in testa) sono state gettate in una severa crisi energetica che ridà competitività all’industria americana, è stata infine impresso quello slancio finale all’inflazione che, attraverso il rialzo dei tassi delle banche centrali, culminerà nella prossima crisi finanziaria mondiale (con epicentro, quasi certamente, l’Italia). In sostanza, grazie al conflitto “controllato” in Ucraina ed a Vladimir Putin, le potenze marittime anglosassoni possono vantarsi di aver chiuso vittoriosamente “il fronte occidentale”, in vista dello scontro, quello sì davvero decisivo, con la Cina nel Pacifico.

Le elezioni dell’8 novembre per il rinnovo del Congresso americano sanciscono, quasi certamente, l’inizio del declino dei democratici anti-russi e l’inizio della riscossa dei repubblicani filo-russi (ed anti-cinesi). Allo stesso tempo, le elezioni dell’8 novembre decretano quindi l’inizio del ravvicinamento tra Russia ed USA che culminerà con la prossima “intesa” tra la Russia di Vladimir Putin e l’America nazionalista. Difficile immaginare i tempi e le forme esatte di questo riavvicinamento: è però certo che, fin dalle prossime settimane, Londra e Washington inizieranno a fare pressione su Kiev per intavolare negoziati secondo l’uti possidetis (lasciando così il ponte terrestre con la Crimea ed il Mare di Azov ai russi). Emblematico è, questo proposito, l’articolo recentemente apparso sul New York Times per mano di Charles A. Kupchan, figura di spicco del potentissimo Council on Foreign Relations. In ogni caso, è certo che gli anglosassoni, dopo aver ottenuto la distruzione del Nord Stream 1 e l’affossamento del Nord Stream 2, non permetteranno mai nei prossimi anni il ripristino dei normali flussi energetici tra Russia ed Europa, in modo tale che l’Unione Europea si decomponga progressivamente nel mix letale di recessione ed inflazione.

In questo quadro di sempre più palese convergenza tra la Russia di Putin e gli anglosassoni, sono sopratutto interessanti le mosse della Germania che, sfidando apertamente gli Stati Uniti, cerca di mantenere e persino rafforzare i legami con la Cina, che ormai si prepara alla sfida per l’egemonia mondiale. Si configura così progressivamente un’Eurasia in cui le due massime potenze agli antipodi cercano di convergere in funzione anti-americana: in mezzo, come ai tempi del peggior leninismo, l’incognita di un’inaffidabile ed ambigua Russia in balia degli elementi anti-nazionali. Si vedranno gli sviluppi.