Sullo scampato default degli USA

A pochi giorni dalla dichiarazione del default, il Congresso degli Stati Uniti ha trovato in extremis un’intesa per l’innalzamento del debito pubblico: il pericoloso flirt con l’insolvenza, quando gli USA sono impegnati in guerra per procura per la Russia, indica comunque una precisa direzione per i prossimi anni. Nel frattempo, i mercati finanziari iniziano a dare segni di irrequietezza e mostrano sinistre analogie col 2008.

Buona la seconda

Il 2 giugno anche il Senato degli Stati Uniti ha approvato, dopo la Camera, l’innalzamento del tetto al debito pubblico americano: così facendo, il governo americano ha evitato l’azzaramento delle casse pubbliche e la dichiarazione formale d’insolvenza, fissata dal Segretario del Tesoro, Janet Yellen, prima all’inizio del mese e poi posticipata al 5 giugno. La “crisi delle crisi” è stata così rimandata al 2025, quando il problema si porrà di nuovo identico: per allora, il debito pubblico americano, già tuttora oltre il 130% del PIL, sarà ulteriormente cresciuto e tutto lascia supporre che, quanto si è evitato per un pelo in questi giorni, non sarà più disinnescabile.

Lo scampato pericolo del default americano, che con grande lungimiranza avevano individuato e segnalato già nel gennaio scorso, è, insieme a tanti altri elementi, come l’arresto di Donald Trump e la polarizzazione sempre più violenta della politica e della società americana, un segnale di quella “guerra civile americana” che erutterà in prossimità delle elezioni americane del 2024 ed avrà inevitabili ripercussioni internazionali, sfasciando cioè alleanze consolidate e favorendo riavvicinamenti oggi impensabili. Si prenda già ora nota che, durante le infuocate settimane che hanno preceduto il cruciale voto del Congresso, l’ex-presidente Donald Trump, nonché probabile candidato alle prossime elezioni presidenziali, si sia esplicitamente dichiarato a favore del default davanti alla telecamere della CNN (che ha dato ampissimo spazio alla crisi, con tanto di “countdown” all’insolvenza). Si prenda altresì nota che, alla Camera del Congresso, i repubblicani, pur essendo maggioranza, abbiano apportato meno voti dei democratici all’accordo che ha scongiurato, in extremis, l’insolvenza degli Stati Uniti.

Detto questo, occorre ora tornare all’analisi generale. Benché avessimo visto con una certa preveggenza l’avvicinarsi della crisi ed avessimo compreso il suo significato geopolitico, lo scorso gennaio abbiamo commesso un errore, per così dire, di “incastro”: abbiamo intuito quanto sarebbe avvenuto ma abbiamo sbagliato a collocarlo nella corretta sequenza degli eventi. Default americano ci sarà, ma non ora. Ne consegue, quindi, che “l’innesco” della crisi finanziaria di cui abbiamo nell’analisi di inizio anno, crisi che servirà a velocizzare lo smantellamento della globalizzazione iniziato col Covid e a favorire la “fascitizzazione” del sistema internazionale, non sarà il default degli Stati Uniti, ma qualche altro evento che si paleserà nelle prossime settimane.

Sul prossimo avvitamento dei mercati finanziari ci sono, infatti, pochissimi dubbi. Arrivati ai primi di giugno possiamo perfezionare l’analisi di inizio anno, dicendo che il 2023 presenta molteplici (e sinistre) analogie col 2008. Nei primi mesi dell’anno sono falliti, de facto, tre maggiori istituti bancari americani (First Republic Bank, Signature Bank, Silicon Valley Bank) ed il colosso bancario svizzero Credit Suisse è stato assorbito d’urgenza da UBS per evitare una crisi sistemica. Questa serie di dissesti si può paragonare all’insolvenza della banca americana Bear Stearns (marzo 2008), che fu acquisita da JP Morgan alla vigilia della crisi dei mutui subprime.

Dopo il fallimento di Bear Stearns, le borse americane continuarono a salire, pur rimanendo sotto i massimi raggiunti l’anno precedente. Allora, si cominciava però a parlare apertamente di un’imminente recessione degli Stati Uniti d’America che, presto o tardi, avrebbe costretto anche le borse, dopate da anni di liquidità a buon mercato, a fare i conti con la realtà. Altra sinistra analogia col presente: una grande economia come la Germania, scienficamente sottoposto allo choc energetico della guerra russo-ucraina, è già entrata in recessione e, diversi indicatori, suggeriscono che la stessa sorte toccherà presto agli USA. Questa volta, però, il “ritorno alla realtà” sarà molto più duro per gli Stati Uniti e l’economia mondiale, perché, nel frattempo, i mercati azionari ed obbligazionari sono stati mandati in orbita da quasi quattordici anni di politica monetaria accomodante.

Fino all’agosto del 2008, le borse mondiali conobbero una relativa fase di assestamento: solo a partire da settembre, col fallimento di Lehman Brothers, si verificò quel tracollo che terminò solo nel gennaio successivo, col lancio degli allentamenti quantitativi in serie. Sfumato lo scenario di un default americano, è difficile a questo punto asserire con certezza cosa possa fungere da “innesco” della crisi finanziaria. Diversi elementi, tuttavia, lasciano presagire che si tratti di un altro collasso di un istituto bancario, travolto dalla stretta monetaria voluta dalla FED per “combattere l’inflazione”, generata dalla distruzione post-Covid della catena di approvvigionamento globale e dalla guerra russo-ucraina. In ogni caso, è ormai certo che ad una Russia in profonda crisi, si aggiungeranno presto anche gli Stati Uniti d’America in analoghe difficoltà economico-politico-sociali: primo passo, verso un rimescolamento “inaspettato” delle carte, partorito dalla mente del solito Henry Kissinger.

5 Risposte a “Sullo scampato default degli USA”

    1. Assolutamente no, coglionazzo anonimo ed invidioso. Nessuno a gennaio avrebbe mai detto che si sarebbe arrivati a quattro giorni dal default americano, con tanto di titoloni del Financial Times. Ripeto: tu e la gente come te, dovete sucare. Sucare.

  1. Per l’innesco c’è sempre l’Italia che è disponibile e si trascina giù mezzo euro

  2. https://www.wallstreetitalia.com/tetto-al-debito-usa-i-precedenti/
    “L’innalzamento del tetto del debito è una prassi comune…
    Il tetto del debito rappresenta il limite posto dal Congresso degli Stati Uniti all’ammontare di prestiti che il governo americano può accumulare…. È stato introdotto nel 1917…
    Da allora il tetto del debito è stato aumentato o sospeso innumerevoli volte, quasi 80 dal 1960 ad oggi, raggiungendo il limite attuale di 31,4 trilioni di dollari (circa il 120% del Pil americano). Diciotto sono stati gli incrementi sotto la presidenza Reagan, otto con Blii Clinton e sette con George W. Bush. In seguito, il Congresso ha alzato il tetto 14 volte dal 2001 al 2016, di cui 11 volte (per un aumento totale di circa 6,5 trilioni di dollari) durante gli otto anni di presidenza Obama.
    La situazione attuale ha molti tratti in comune con quella del 2011, quando il presidente democratico Barack Obama ingaggiò una lunga battaglia politica con il Congresso a maggioranza repubblicana. In tale occasione, il GOP strappò un accordo che comportò un drastico taglio della spesa pubblica e la cancellazione di nuove tasse per i più abbienti, ottenendo quella che molti considerano tuttora una netta vittoria politica per i Repubblicani. L’intesa fu trovata a soli due giorni dalla fatidica “data X” in cui gli Usa avrebbero esaurito la capacità di onorare gli impegni. Nel frattempo, però, gli uffici dell’amministrazione federale furono momentaneamente chiusi a causa dell’impossibilità del governo di pagare stipendi e servizi, S&P declassò il debito statunitense da AAA ad AA+ e il mercato azionario subì una brusca correzione….”

  3. Il declino USA è ormai evidente e sotto gli occhi di tutti, solo quell’imbecille di Putin poteva essere in grado con la sua guerra a ricompattare e a rafforzare la decotta NATO in Europa.

I commenti sono chiusi.