La Repubblica islamica fa i conti con se stessa

L’esecuzione dell’ex-viceministro della Difesa iraniano, Alireza Akbari, accusato di essere una spia dell’MI6, pone alcuni interrogativi: come ha fatto un presunto agente britannico a raggiungere i vertici della Repubblica Islamica? E perché è stato giustiziato proprio ora? Il passato della rivoluzione islamica riaffiora prepotentemente, costringendo Teheran, ormai prossima alla prova decisiva con israeliani ed anglosassoni, a fare i conti con se stessa.

I nodi vengono al pettine

A distanza di circa quattro mesi dall’inizio delle proteste con cui le potenze anglosassoni ed i loro alleati regionali stanno tentando di destabilizzare l’Iran, gettandolo in un caos simile a quello in cui sono sprofondate Libia e Siria, è giunta notizia che le autorità iraniane hanno giustiziato Alireza Akbari, passaporto britannico (preso presumibilmente nel 2008) ed ex-viceministro della Difesa durante la presidenza riformista di Mohammad Khatami (1997-2005). Accusa: essere una spia del re d’Inghilterra ed essere a capo della potente e ramificata organizzazione dell’MI6 nel Paese. L’avvenimento accende, di per sé, non pochi interrogativi. Primo fra tutti: come è possibile che una presunta spia della perfida Albione abbia raggiunto i vertici dell’Iran che, agli occhi delle masse, è una delle potenze anti-occidentali per eccellenza, impegnato in una lotta quarantennale contro il Grande Satana anglo-americano? Secondo: perché il presunto capo del servizio d’informazioni britannico dentro l’Iran è stato giustiziato proprio nel gennaio 2023?

Come diceva Hegel: tutto ciò che è reale è razionale. Se un fenomeno accade, c’è un motivo. La nostra tesi è che l’esecuzione di Alireza Akbari abbia validissime ragioni storico-politiche e fosse, in un certo qual senso, necessaria ed inevitabile. Che un giorno, presto o tardi, si arrivasse all’esecuzione di un ex-viceministro della Difesa iraniano, con l’accusa di essere una spia inglese, era scritto già nelle primissime fasi della rivoluzione islamica del 1979, che causò la caduta dello scià di Persia e l’avvento della teocrazia di Khomeini. Dopo 44 anni i nodi, infine, giungono al pettine e, continuando come sempre col principio di Hegel secondo cui tutto ciò che è reale è razionale, vengono al pettine nel momento in cui le potenze anglosassoni stanno per mettere a ferro e fuoco l’Eurasia, coll’obiettivo di scardinare il triangolo Russia-Iran-Cina.

La nostra tesi, dunque, è che per capire l’esecuzione del “britannico” Alireza Akbari bisogni risalire alle origini della “rivoluzione islamica”, cercando di coglierne la natura equivoca, simile a quella di quasi tutte le altre grandi rivoluzioni moderne, da quella francese del 1789 a quella fascista del 1922. Ricostruendo una brevissima storia non ortodossa della rivoluzione islamica del 1979, ci serviremo dei nostri soliti strumenti: tanta geopolitica e tanti dati di fatto. Se qualcuno ci vorrà leggere della dietrologia, bè, quasi certamente è anch’egli una spia dell’MI6.

Partiamo da ciò che è l’Iran: una grande potenza non-semitica (evidenziamo non-semitica, perché il dato razziale ha la sua importanza decisiva), collocata in un punto cruciale del Rimland euroasiatico (la via d’accesso dal Golfo Persico all’Heartland euroasiatico) ed erede di diversi imperi che hanno storicamente organizzato ampie porzioni del Medio Oriente (ai tempi di Ciro il grande, l’impero persiano si estendeva dall’Afghanistan alla moderna Grecia). Il dato che l’Iran ospiti le terze riserve di idrocarburi al mondo, è certamente importante, ma non va sopravvalutato: la geopolitica ha sempre la meglio sul petrolio.

Il petrolio fu, certamente, alla base del colpo di Stato del 1953 (Operazione Ajax), con cui gli anglo-americani rovesciarono il primo ministro iraniano Mohammad Mossadeq, reo di voler nazionalizzare la produzione di petrolio e di trattenere in patria una parte maggiore di quella ricchezza che defluiva verso Londra e Wall Street. Deposto Mossadeq, l’Iran dello scià Reza Phalavi si rimise però saldamente sui binari occidentali tanto che, a partire dal 1956 sino al 1963, quando le rivoluzioni nazionaliste infiammarono prima l’Egitto e poi la Siria, l’Iran fu un baluardo occidentale nella regione, caposaldo della “reazione”, fermamente impegnato a garantire un flusso costante di petrolio verso l’Occidente, stretto alleato di Israele e del Sud Africa dell’apartheid.

Eppure, eppure. Eppure l’Iran dello scià Rheza Palevi non piaceva agli anglosassoni e agli israeliani. Nonostante le costanti promesse di fedeltà all’Occidente, nonostante l’impegno di costituire uno dei cardini del “contenimento” anti-sovietico, nonostante gli onerosi acquisti di armi occidentali, nonostante i miliardi dilapidati affidandosi a società di consulenza americane e inglesi, l’Iran non piaceva. Le ingenue celebrazioni dello scià di Persia del 1971 per i 2.500 anni dalla fondazione dell’impero achemenide, ricche di rievocazioni storiche e di ogni sorta di sfarzo, devono essere sembrate fumo negli occhi agli anglosassoni, che infatti le accolsero con derisione e una certa sufficienza: ha davvero, lo scià, intenzione di resuscitare quella grande potenza non-semitica (a differenza dell’Arabia Saudita) che dominò il Medio Oriente? E come si collocherà, tale potenza, nello scacchiere internazionale?

Le memorie di Henry Kissinger sono la perfetta cartina di tornasole dei rapporti tra Iran ed Occidente: più lo scià prometteva fedeltà all’Occidente, maggiore era la diffidenza verso questa monarchia “alleata”, che progettava grandi investimenti ed un futuro da potenza industrializzata. I media occidentali non si fecero scrupoli a scaricare le colpe dello choc petrolifero del 1973 sullo scià, sebbene questi non avesse avuto alcun ruolo delle vicende della guerra del Kippur. Proprio nel 1973, si verificano in Iran le prime violente proteste, che portano all’incarcerazione del futuro ayatollah Khomeini. Sebbene lo scià professi la sua amicizia all’Occidente ed il più rigido laicismo, i media occidentali iniziano a dipingere i rivoluzionari sciiti come l’avvenire: puri, devoti alla causa, monacali, in sintonia con le masse ed i giovani. L’inconfessabile alleanza tra rivoluzionari islamici e occidentali diviene presto chiara allo scià, che denuncia: sotto la barba degli ayatollah, c’è l’emblema dell’MI6.

Si arriva così al fatidico 1979, anno in cui gli anglosassoni riscrivono gli assetti di quella cruciale porzione del Rimland che inizia dall’Afghanistan e termina in Iraq. Siamo in piena Guerra Fredda, eppure la destabilizzazione di un cruciale “alleato” occidentale in Medio Oriente non è innescata dall’Unione Sovietica, ma dagli stessi angloamericani. Mosca tace per mesi sulle proteste che divampano in Iran poi, quando ormai è evidente che la dinastia dei Reza Phalavi sia agli sgoccioli, si limita a pubblicare laconici editoriali sulla Pravda, esprimendo sostegno alle forze del cambiamento: i russi vedono giusto. Nel volgere di pochi anni, infatti, i comunisti iraniani del Tudeh saranno prima isolati e poi liquidati. La rivoluzione islamica del 1979 è al 100% opera degli occidentali. Il presidente americano Jimmy Carter pugnala lo scià definendolo come interlocutore non più affidabile; la BBC inglese diffonde e rilancia i messaggi dei rivoluzionari islamici; la Francia di Valéry Giscard d’Estaing ospita l’ayatollah Khomeini nell’ameno villaggio Neauphle-le-Château e si occupa di riportarlo fisicamente in patria a bordo di un aereo Air France.

Lo scià sente mancarsi la terra sotto i piedi e si gioca il tutto per tutto: affida la carica di primo ministro al nazionalista Shapur Bakhtiar, con l’incarico di formare un governo aperto ai rivoluzionari che, però, sanno di avere ormai il vento in poppa. Attorno alla metà del gennaio 1979, lo scià lascia segretamente il Paese: le residue speranze della monarchia riposano nelle forze armate. Paradossalmente (o, meglio, logicamente), l’arma più moderna ed occidentale, l’aviazione, fa però causa con i rivoltosi e ingaggia duri combattimenti con la guardia imperiale. La dinastia imperiale dei Reza Phalevi, iniziata nel 1931, è alla fine: nel febbraio 1979, il Paese scivola verso la guerra civile da cui emerge, come sempre, la figura di un “puritano”. L’ayatollah Khomeini, guida suprema del nuovo Iran islamico. Kissinger e soci chiudono la partita: nell’estate 1979, Saddam Hussein assume poteri dittatoriali in Iraq liquidando gli ex-alleati di partito e, contando sull’appoggio occidentale e sulla debolezza dell’Iran, apre le ostilità col vicino sperando di conquistare con un rapido colpo di mano le foci dell’Eufrate che si gettano nel Golfo Persico. È l’inizio della guerra più sanguinosa dal 1945: un milione di morti che, in otto anni di combattimenti, metteranno in ginocchio entrambi i contendenti. Per la gioia di Israele e delle potenze anglosassoni.

Trascorrono i decenni e, dentro al regime iraniano, si delineano due precise correnti: quelli dei “riformisti”, cui appartiene quel viceministro della Difesa appena giustiziato, che è l’erede delle quinte colonne del 1979. Agenti al servizio degli occidentali per l’eterna destabilizzazione dell’Iran. E quella dei “conservatori”, che rappresenta non tanto gli interessi religiosi (si è parlato, in questi mesi, di una “evoluzione” del regime islamico verso una dittatura militare) quanto i più genuini interessi nazionali iraniani: coloro, cioè, che l’Iran possa svolgere pianamente la sua funzione di fattore-potenza in Medio Oriente. È del tutto normale, quindi, che l’esecuzione di Alireza Akbari e la caccia agli “agenti britannici” si verifichino nel gennaio 2023, dopo mesi di sommosse e tentativi di destabilizzazione.

Il regime iraniano deve purificare se stesso, purgandosi ed espellendo quelle tossine che si porta in corpo dal 1979. L’operazione è quanto mai necessaria perché l’Iran, dopo una lieve febbre, sconfigga l’infezione e arrivi in piene forze all’appuntamento decisivo: il confronto militare con le potenze marittime anglosassoni che, quasi certamente, sarà simultaneo al confronto con la Cina. Due o tre anni, al massimo.