Come Vladimir Putin sta portando la Russia alla sconfitta

Sabato 10 settembre, l’esercito ha ucraino ha operato un rapido e vittorioso sfondamento nella regione di Charkov, imprimendo un nuovo corso alla guerra russo-ucraina. Chi aspettava un’immediata mobilitazione russa, è rimasto deluso: sono ormai così numerosi e macroscopici gli errori della gestione di Vladimir Putin da lasciare persino pensare che “l’ex-protégé” di Henry Kissinger sia reo di collusione con gli anglosassoni.

Intelligenza col nemico?

Il 10 settembre 2022 il conflitto russo-ucraino ha probabilmente assunto un nuovo, ed inaspettato, corso: operando uno sfondamento nella regione di Charkov, gli ucraini, forti di una schiacciante superiorità numerica (si parla di un rapporto 8:1) hanno travolto le linee russe, cancellando conquiste costate mesi di fatiche e migliaia di vite e portandosi fino alla frontiera della Federazione Russa. Di fronte a questo sconcertante successo ucraino, reso possibile dall’ennesimo “fallimento” (o complicità?), dei servizi d’informazione russi, molti si attendevano un’immediata reazione del Cremlino: dopo averla procrastinata per mesi (avrebbe dovuto essere dichiarata già nel mese di marzo, dopo il fallito tentativo di rovesciare il governo Zelensky), si immaginava che finalmente il Cremlino proclamasse la mobilitazione generale, per costituire quella massa d’urto necessaria a vincere un conflitto che non può più essere considerato “un’operazione speciale”. Nulla, invece, è accaduto. Sono ormai così numerosi, e così macroscopici, gli errori della gestione di Vladimir Putin da consentire di avanzare l’ipotesi anche più azzardata, ossia che l’ex-protégé di Henry Kissinger sia in combutta con le potenze anglosassoni, le uniche finora a trarre evidenti ed indiscussi benefici dalla guerra in Ucraina.

Ma procediamo con ordine, per dimostrare quanto siano solidi questi sospetti.

Come scrivemmo in un lucidissimo e chiaroveggente articolo del febbraio 2015, a qualsiasi esperto di strategia e geopolitica era chiaro fin dal principio che le potenze anglosassoni, spingendo la Russia ad invadere l’Ucraina per proteggere le regioni russofone minacciate dal governo nazionalista di Kiev, mirassero a ripetere la “trappola” dell’invasione sovietica dell’Afghanistan del 1979: isolamento internazionale, estenuante guerriglia alimentata dagli anglosassoni, erosione delle forze economiche e militari russe. A differenza dell’invasione sovietica del 1979, il quadro ucraino del 2022 presentava però significative differenze: la Russia, innanzitutto, poteva godere dell’esplicito e generoso supporto della Cina, assurta nel frattempo a prima economia mondiale. A differenza del teatro afghano, l’Ucraina presentava poi una seria di evidenti vantaggi facilmente sfruttabili da Mosca: un terreno famigliare, un’incredibile vicinanza al cuore demografico ed economico della Russia, una popolazione di etnia e lingua russa in attesa di essere “liberata” dal governo nazionalista di Kiev, una serie di obiettivi geopolitici e militari perseguibili senza particolari difficoltà (nelle nostre analisi dello scorso febbraio, si era ipotizzata la riva orientale del Dniepr). L’invasione dell’Ucraina, in sostanza, presentava chiare chances di successo: conseguendo una rapida vittoria militare, la Russia avrebbe potuto ristabilire il controllo sul Mar Nero, riconquistando una dimensione mediterranea, mediorientale e quindi davvero mondiale.

Nel mese di febbraio-marzo, avvalendosi di una “errata” valutazione dei servizi d’informazione russi, il Cremlino si è lanciato nell’assedio di Kiev, coll’obiettivo di defenestrare Zelensky e installare un nuovo governo filo-russo. L’obiettivo, sebbene improbabile (i servizi occidentali avevano avuto 8 anni di tempo per epurare l’apparato burocratico ucraino), era legittimo: entra la fine di marzo, era comunque fallito. Allora, il Cremlino avrebbe dovuto prontamente imboccare la strada della guerra per conseguire tangibili risultati territoriali e militari: riversando la propria schiacciante superiorità militare e demografica in Ucraina, Mosca avrebbe cioè dovuto annettersi nel volgere di pochi mesi il bacino del Donbass, assicurarsi il ponte terrestre con la Crimea e occupare Odessa, così da riconnettersi con la Transnistria e privare gli ucraini di qualsiasi accesso al mare. Qualora questi obiettivi non fossero stati conseguibili all’interno dell’operazione speciale (circa 150.000-200.000 uomini sul campo), il Cremlino avrebbe dovuto, settimana dopo settimana, mobilitare un numero di uomini sufficienti a chiudere la partita in tempi ragionevoli, anche perché il tempo gioca a favore di Kiev: forte di una mobilitazione generale della popolazione maschile e di forniture di armi sempre più potenti da parte degli anglosassoni, le forze armate ucraine si rafforzano infatti mese dopo mese.

Attorno al 20 maggio, la città portuale di Mariupol è stata conquistata con notevole ritardo sulla tabella di marcia ipotizzata. Poi l’offensiva russa, mirante sulla carta a “liberare” il Donbass, è entrata progressivamente in una fase di stallo fino al sullodato 10 settembre, quando gli ucraini hanno travolto le linee russe nella regione di Charkov, spostando il piano inclinato della guerra a loro favore. Nella seconda metà di settembre, è ormai evidente che gli ucraini hanno acquistato lo slancio per riportare una vittoria totale sulla Russia, cancellando cioè anche le perdite subite nel 2014, in primis la penisola di Crimea. Mobilitando l’intera popolazione e addestrando grazie agli istruttori occidentali un numero sempre crescente di truppe, Kiev potrà entro il 2023 disporre di una schiacciante (e paradossale!) superiorità di 5:1 su tutto il fronte, travolgendo chilometro dopo chilometro le difese russe. A quel punto, la vittoria delle potenze anglosassoni sarebbe travolgente.

Enumeriamo, infatti, quali risultati hanno già ottenuto Londra e Washington:

La posta in gioco, in sostanza, è ormai tale che il Cremlino dovrebbe essere pronto a tutto per riportare una vittoria, seppur limitata, in Ucraina. Nulla, invece, sembra evidenziare una volontà di Vladimir Putin di raddrizzare il corso della guerra, imprimendole quella svolta ormai improcrastinabile per riportare il successo. Elenchiamo, di seguito, i maggiori errori macroscopici nella gestione del Cremlino:

  • fin dall’inizio del conflitto, Mosca non ha fatto nulla per imporre una “no-fly zone” sull’Ucraina e stabilire quel dominio dell’aria necessario, sebbene non sufficiente, a vincere una guerra moderna:
  • tranne qualche sporadico impiego sull’acciaieria di Mariupol, Mosca non ha fatto uso dei bombardieri strategici;
  • le infrastrutture logistiche ucraine non sono state bersagliate con quella costanza e sistematicità tale da sortire concreti risultati. Lampante l’esempio dei ponti sul fiume Dniepr (quante analogie con i ponti sul Reno del 1944!): mentre gli ucraini bombardano senza sosta quelli occupati dai russi nella regione di Cherson, i russi lasciano intatti quelli dell’avversario. Similmente grave (e incomprensibile!) il mancato bombardamento metodico delle ferrovie che portano le armi occidentali dalla Polonia al lontano fronte bellico nel sud-est del Paese;
  • nonostante diversi appelli da parte della “opposizione” politica, Vladimir Putin non ha ancora imboccato la strada, ormai improcrastinabile, della guerra totale: mobilitazione della popolazione maschile e produzione bellica a pieno regime per imporre (perlomeno!) un rapporto di 1:1 sul fronte.

A qualsiasi esperto di storia o strategia militare, gli errori del Cremlino appaiono ormai così numerosi, così eclatanti e così gravi, da avanzare persino l’ipotesi che Vladimir Putin sia colpevole di intelligenza col nemico: sfruttando cioè la sua posizione di “zar” consolidata negli ultimi 20 anni, il capo del Cremlino starebbe in sostanza consentendo agli anglosassoni di riportare una vittoria totale sul fronte europeo/atlantico, cosicché possano concentrarsi senza preoccupazione su quella che è sempre stata, e rimane, la principale minaccia all’orizzonte: la Cina, impegnata ad organizzare la massa afro-euro-asiatica con una rete sempre più fitta e capillare di infrastrutture. Il comportamento dei vertici cinesi indica chiaramente che tale sospetto inizi a serpeggiare anche a Pechino: se a febbraio, infatti, Xi Jinping aveva invocato un’amicizia “illimitata” tra Russia e Cina, al vertice russo-cinese del 15 settembre, svoltosi in terra neutrale a Samarcanda, il presidente cinese ha preso esplicitamente distanza da Vladimir Putin e dalla sua gestione del conflitto ucraino, esprimendo le proprie “preoccupazioni” e avanzando diverse “domande” sulla guerra ucraina. In sostanza, si chiedono a Pechino, Vladimir Putin vuole davvero creare un fronte europeo anti-anglosassone, forte del supporto cinese? O sta facendo di tutto perché gli anglosassoni possano concentrare tutte le loro forze sulla Cina?

Il percorso politico di Vladimir Putin è noto. Uscito dalle file del KGB, l’attuale zar deve molte delle sue fortune all’incontro, nei primissimi anni ‘90, con Henry Kissinger. Subentrato alla disastrosa gestione di Boris Eltsin nel 1999, Putin ha appoggiato più o meno apertamente “le guerre al terrore” lanciate dagli angloamericani nel 2001 e miranti a ridisegnare la cruciale fascia mediorientale che va dalla Libia all’Afghanistan, passando per la Somalia. Le sue strette relazioni con Israele ed il leader Benjamin Netanyahu sono di pubblico dominio. La sua “intesa” con Donald Trump e gli ambienti israeliani americani è nota. Più aspetti del passato di Vladimir Putin, insomma, lasciano supporre una possibile ed inconfessabile intesa con gli anglosassoni, a detrimento della Germania e, soprattutto, della Cina. Un’intesa, però, diretta in primis contro gli interessi della Russia stessa.

Qualora, infatti, Vladimir Putin non decidesse di imboccare, nelle prossime settimane al massimo, una profonda revisione della strategia in Ucraina, la Russia sarebbe destinata inesorabilmente a perdere il conflitto, con conseguenze di portata storica simili ai “collassi” del 1917 e del 1991. Molti Paesi dell’ex-area URSS cercherebbero nuovi protettori, la dimensione mediterranea ed euroasiatica della Russia sarebbe irrimediabilmente perduta insieme alla Crimea, la tenuta stessa della Federazione Russa sarebbe messa in pericolo dal riemergere delle forze centrifughe.

Vladimir Putin sta perdendo la guerra. Molti elementi lasciano supporre che sia colpevole di intelligenza col nemico. Bisognerà vedere se l’apparato burocratico-militare russo ha in sé le forze sufficienti per riportare la Nazione sulla retta via. In ogni caso, nel prossimo articolo, prenderemo in analisi l’ipotesi peggiore: sconfitta militare in Ucraina e scomparsa della Russia come fattore potenza in funzione anti-anglosassone.