Dallo Yemen alla Libia frenesia saudita

Il neo-ministro della difesa saudita, il principe Mohammad bin Salman, ha impresso una svolta aggressiva alla politica di Riad: in Yemen guida la coalizione sunnita  patrocinata dagli angloamericani che cerca a colpi di bombe di contenere la ribellione sciita, impedendo che almeno Aden cada in mano agli insorti filo-iraniani. In Libia, al contrario, starebbe allestendo una forza d’intervento araba per sostenere il governo di Tobruk che ha il palese appoggio russo: se l’operazione militare si concretizzasse, sarebbe il primo significativo smarcamento di Riad dalle politica destabilizzatrice di Londra e Washington. L’Egitto del generale Abdel Al-Sisi svolge un ruolo di cerniera tra Mosca e Riad, aperte ad una collaborazione tattica.

Quando il ribelle non piace a Washington: il caso Yemen

I ribelli sciiti dello Yemen, noti come Houthi in ossequio al loro carismatico capo Hussein al-Houthi ucciso nel 2004 dai governativi, afferrano sin dal loro ingresso a Sanaa nell’estate 2014 che la loro rivoluzione non sarà celebrata dai media occidentali.

Il filosofo francese Bernard-Henri Lévy, erede degli intellettuali al soldo della CIA che durante la Guerra Fredda lavorano per il Congress for Cultural Freedom, non è in piazza a galvanizzare la folla, a differenza delle rivoluzioni colorate in Libia e Ucraina; nessun appello è lanciato dall’intellighenzia europea in solidarietà alla minoranza sciita che insorge contro il corrotto (e filo-americano) governo centrale; nessun attivista della rete Otpor!/CANVAS coordina la protesta di Sanaa, né il Dipartimento di Stato alimenta l’insurrezione con denaro o consulenti militari.

La reazione americana alla ribellione è infatti diametralmente opposta alle insurrezioni che scalzano Muammur Gheddafi e Viktor Yanukovych: quando gli Houthi si impadroniscono della capitale e costringono alla fuga il presidente Abd Rabbuh Mansur Hadi, installato nel 2012 al posto del consunto Ali Abdullah Saleh, Washington abbandona precipitosamente il poverissimo ma strategico paese che presidia l’imboccatura del Mar Rosso.

La fuga americana ha il sapore della rotta: la sera di febbraio che precede l’evacuazione dell’ambasciata sono date alle fiamme tonnellate di documenti, distrutte le armi in dotazioni ai marines ed organizzati convogli di blindati per raggiungere in sicurezza l’aeroporto1. Quasi 20 anni di ingerenza negli affari yemeniti col pretesto della lotta ad Al Qaida, hanno accumulato una tale mole di scomode verità che per bruciarle serve tutta la notte. La natura della ribellione sciita è infatti fortemente anti-americana e quando il presidente-fantoccio Musur Hadi ripara ad Aden per poi fuggire in Arabia Saudita, unanime si alza il coro di condanna di USA, Regno Unito, Francia, mentre Israele osserva preoccupata la caduta del regime e l’avanzare degli insorti sostenuti dall’Iran2.

Il 14 aprile 2015 il Consiglio di Sicurezza dell’ONU, con la sola astensione della Russia, adotta la risoluzione 2216 che intima ai ribelli sciiti di ritirarsi dalle zone conquistate, istituisce un embargo sulle armi per gli insorti ed impone sanzioni economiche contro i capi della rivolta3: nel mirino finiscono i papaveri del clan Houthi e l’ex-presidente Ali Abdullah Saleh, spodestato nel 2012 dagli americani sull’onda della “Primavera araba” ed ora passato tra le file dei ribelli.

Alla base della strepitosa avanzata degli Houthi, che partendo dal nord-ovest dello Yemen hanno prima conquistato la capitale Sanaa e sono poi entrati ad Aden, si nasconderebbe infatti un patto con l’ex-presidente Saleh, che mobilita la Guardia Repubblicana e le unità delle forze armate rimastegli fedeli4, mettendo a disposizione dell’insurrezione gli arsenali dell’esercito5.

Di fronte all’avanzata dei ribelli filo-iraniani, il neo-ministro della difesa saudita, il principe Mohammad bin Salman, agisce con inusuale rapidità ed aggressività: la riunione della Lega Araba del 29 marzo a Sharm el-Sheikh vara una forza congiunta per intervenire militarmente contro il povero paese arabo.

L’Arabia Saudita dispiega 150.000 soldati a ridosso della frontiera yemenita e mette a disposizione 100 caccia; 30 provengono dagli Emirati Arabi Uniti, altri 30 da Kuwait e Bahrein, 10 dal Qatar ed una manciata da Sudan, Marocco ed Egitto6. Quando l’aviazione della coalizione sunnita si alza sopra il territorio yemenita per bombardare obbiettivi militari e civili, immediata si alza anche la condanna di Cina, Russia ed Iran, che tacciano l’intervento di palese violazione della sovranità di Sanaa.

USA, Regno Unito e Francia offrono invece all’azione saudita il proprio appoggio: se l’azione NATO contro Muammur Gheddafi scatta quando il Colonnello si appresta a soffocare la ribellione di Bengasi fomentata dagli inglesi (vedi la cattura ed il rapido rilascio nel marzo 2011 di due ufficiali del MI6 e sei soldati delle SAS7), i reali di casa Saud al contrario offrono una sfarzosa accoglienza ai ministri della difesa britannico8 e francese9, che esprimono la propria vicinanza a Riad.

Washington in particolare fornisce alla coalizione sunnita assistenza nel campo della ricognizione e sorveglianza e rincalza con la propria flotta10 il blocco navale istituto dai sauditi per impedire che l’Iran invii rifornimenti ai ribelli. Il Regno Unito invece dà il suo prezioso aiuto nell’assicurare l’efficienza della flotta aerea saudita: Riad è infatti il principale mercato di sbocco dell’industria militare britannica11 e la “saudizzazione” è uno dei capisaldi aziendali della BAE Systems, il colosso inglese degli armamenti.

A livello d’intervento terrestre, c’è la disponibilità da parte del generale egiziano Abdel Al-Sisi (installato alla presidenza dell’Egitto da Riad, in sostituzione degli odiati Fratelli Mussulmani) a sbarcare soldati12 e si specula sulla presenza di reparti speciali egiziani in alcune località yemenite.

Gli unici stivali certi impegnati contro gli Houthi sono però quelli dell’ISIS e di Al Qaida, da sempre impegnati in una strenua lotta contro la minoranza sciita. L’impiego dell’ISIS non ha sortito finora risultati degni di nota, se non la produzione di due video confezionati con perizia occidentale13 dove si minacciano di sgozzamento i ribelli e si immortalata l’esecuzione di una ventina di presunti insorti sciiti14.

I bombardamenti della coalizione sunnita (costati 1.400 vittime e 6.000 feriti, secondo stime ONU15) falliscono, dopo sei settimane di continui raid, l’obbiettivo di piegare la rivolta, sebbene il principe saudita Mohammad bin Salman sostenga a metà aprile di aver liberato Aden dai ribelli sciiti16. Le notizie che giungono dal campo contraddicono infatti la versione saudita: il 7 maggio, secondo l’agenzia Reuters17, gli Houthi ed i reparti della Guardia Repubblicana fedeli all’ex-presidente Saleh espugnano, nonostante gli interventi dei caccia sauditi, un quartiere strategico di Aden18.

Nel frattempo la coalizione sunnita subisce qualche pesante smacco: un F-16 marocchino ed un Apache saudita sono abbattuti19 dagli Houthi, mentre si registrano i primi allarmanti straripamenti del conflitto in territorio saudita. La cittadina saudita di Najran, a pochi chilometri dal confine con lo Yemen, è oggetto di colpi di mortaio20, un impianto petrolchimico dell’Aramco è bersagliato dagli Houthi21 e l’11 maggio gli scontri sul confine saudita-yemenita registrano caduti da ambo le parti22.

Il generale iraniano Mohammad Ali Jafari, comandante dei Pasdaran, si dice fiducioso e, anche per galvanizzare la minoranza sciita dentro i confini dell’Arabia Saudita, assicura: la monarchia di Riad è vicina al collasso23.

Esula dalla nostra analisi stabilire se, come possibile, l’intervento militare dell’Arabia Saudita in Yemen possa causare il collasso di casa Saud: quello che ci interessa invece sottolineare è come la politica di Washington degli ultimi anni abbia involontariamente accresciuto anziché diminuire la potenza dell’Iran, fenomeno che non è sicuramente sfuggito a Riad. È infatti la decennale guerra al terrorismo americana in Yemen e la successiva decisione di defenestrare Ali Abdullah Saleh sull’onda della Primavera Araba che spianano la strada ai ribelli Houthi filo-iraniani.

È sempre la decisione di schierare l’ISIS in Iraq e Siria che, anziché causare la caduta dei governi filo-iraniani, aumenta paradossalmente l’influenza di Teheran, tanto che a dirigere le operazione contro il Califfato è il generale iraniano Qasem Soleimani: la monarchia dei Saud realizza che l’unico risultato finora concretamente conseguito dagli americani è stato la balcanizzazione e la destabilizzazione del Medio Oriente, senza scalfire minimamente l’influenza iraniana.

Quando l’ISIS compare in Libia minacciando di travolgere non solo il governo di Tobruk ma anche, e soprattutto, l’Egitto dell’alleato Abdel Fattah Al-Sisi, l’Arabia saudita decide che la strategia di destabilizzazione degli angloamericani si è spinta troppo oltre: loro potrebbero essere i prossimi della lista.

Quando il governo non non piace a Washington: il caso Libia

Della Libia ci siamo occupati a più riprese negli ultimi sei mesi: nel novembre del 2014 prevedemmo con facilità, conoscendo le mire destabilizzatrici degli angloamericani, che i tentativi del governo di Tobruk (nazionalista, laico e riconosciuto dalla comunità internazionale) di prevalere sui rivali di Tripoli (gli islamisti di Alba della Libia sostenuti da Turchia e Qatar e, analogamente al conflitto siriano, da Israele, Regno Unito e USA) avrebbero spinto il premier Al-Thani ed il capo di stato maggiore Khalifa Haftar nelle braccia di Mosca.

Nel mese di febbraio i sostenitori del generale Khalifa Haftar scendono in piazza a Tobruk24, manifestando contro l’ambasciatrice americana Deborah K. Jones (di stanza a Malta ed accusata di simpatizzare per gli islamisti di Alba della Libia25) e invocando la riesumazione dei vecchi accordi firmati tra Libia e Russia per la vendita di armi. È infatti dell’agosto 2014 la risoluzione dell’ONU che rafforza l’embargo degli armamenti, impedendo all’Esercito Nazionale libico di dotarsi di materiale bellico moderno.

La più ferrea opposizione al riarmo dell’esercito libico proviene, secondo il premier Abdullah Al Thani26, da Stati Uniti e Regno Unito. Il mercato nero e le aziende specializzate nel settore (ucraine, serbe, ungherese e greche27) si preoccupano ovviamente che fucili e munizioni non scarseggino mai, ma è più difficile procurarsi di contrabbando elicotteri d’attacco Mil Mi-35, che consentirebbero alle forze armate libiche di acquisire un vantaggio strategico.

Date queste premesse, il riavvicinamento tra Libia e la Russia è solo questione di settimane: è infatti sufficiente attendere fino ad aprile perché il premier libico Al-Thani voli a Mosca. Davanti al ministro degli esteri russo Sergey Lavrov, il premier accusa esplicitamente l’Occidente di aver abbandonato la Libia nel caos, senza forze armate né istituzioni, e si appella a Mosca affinché nelle sedi internazionali si batta per la cancellazione dell’embargo delle armi, ricordando gli storici legami tra le forze armate libiche e la Russia28. Lavrov in risposta assicura che è interesse del Cremlino garantire l’integrità del Paese.

Non c’è infatti alcun dubbio che la principale minaccia che grava sulla Libia è la balcanizzazione in tre (Cirenaica, Tripolitania, Fezzan) o più (le citta-stato di Misurata e Derna, le zone abitate da berberi e taureg) entità. La disintegrazione della Libia, come nel caso della Siria e dell’Iraq, è scientificamente perseguita da Washington, Londra e Tel Aviv con l’intento di sostituire ai precedenti stati centralizzati, dotati di forze armate e burocrazia, un pulviscolo di potentati locali divisi lungo faglie etniche e religiose, manovrabili a piacimento e inoffensivi.

Analogamente al conflitto siriano (dove però il tentativo di rovesciare Bashar Assad fallisce) per la destabilizzazione della Libia gli angloamericani si avvalgono delle potenze sunnite compiacenti: Qatar e Turchia in testa.

La piccola quanto ricca monarchia del Golfo Persico già nel 2011 (in comune accordo con la Francia di cui si accattiva le simpatie comprando immobili, squadre di calcio, caccia Dassault Rafale e quant’altro) gioca un ruolo determinante nel rovesciare il Colonnello, con l’obbiettivo di instaurare un governo islamista. È sempre il Qatar che foraggia le milizie Alba della Libia, che nell’agosto del 2014 conquistano Tripoli costringendo il governo di Al-Thani a riparare a Tobruk, ed è nel deserto qatariota che è allestito uno dei campi CIA dove sono sfornati “i ribelli moderati” da inviare in Siria29: potrebbero quindi provenire da Doha i miliziani dell’ISIS che a gennaio 2015 fanno irruzione sulla scena libica.

La Turchia neo-ottomana di Recep Erdogan è, assieme al Qatar, assurta a principale centro di formazione e smistamento dei miliziani e terroristi sunniti, dispiegati da angloamericani ed israeliani ovunque occorra attuare politiche destabilizzatrici. Dagli eventi degli ultimi mesi si intuisce che dalle coste turche salpano i cargo,  diretti in Cirenaica e Tripolitania, carichi di rifornimenti e dei mercenari che rincalzano le file dell’ISIS.

Per impedire il consolidamento del governo di Tobruk, la Turchia, con la compiacenza dei governi occidentali che sono a conoscenza di questi traffici, alimenta infatti la roccaforte islamista di Derna, dove è stata recentemente issata la bandiera nera del Califfato. È nelle acque di Derna che nel gennaio 2015 l’aviazione libica bombarda una petroliera greca, accusata da Tobruk di traghettare miliziani islamisti30, ed è sempre diretto a Derna il mercantile turco che l’11 maggio è oggetto di un raid dei caccia libici, che danneggiano gravemente il cargo ed uccidono un ufficiale di bordo. L’attacco peggiora ulteriormente le relazioni tra Tobruk ed Ankara, già ridotte al lumicino da quando lo scorso febbraio il premier Al-Thani ha bandito le aziende turche dal (modesto) territorio che controlla.

A complicare la situazione del governo di Tobruk, sebbene questi sia formalmente riconosciuto dalla comunità internazionale come il legittimo rappresentante della Libia, è poi la sostanziale quarantena a cui l’hanno costretto gli angloamericani: ciò spiega anche il rapido deterioramento d’immagine del generale Khalifa Haftar, presentato dai media italiani con crescente ostilità.

Alla campagna di denigrazione del capo dell’esercito libico, impegnato da Bengasi a Derna contro i terroristi dell’ISIS, partecipano, per fare qualche nome, il giornalista Carlo Pannella31 (collaboratore dei filo-isrealiani Il Foglio e L’Occidentale), il giornalista de Il Manifesto Giuseppe Acconcia32 (collaboratore della fondazione di OpenDemocracy di George Soros e dell’Università Americana del Cairo), Vincenzo Nigro sulla denedettiana La Repubblica33 e varie testate internet.

A contrariare Washington e Londra non è tanto la possibilità che Haftar reprima con la forza gli islamisti od emerga come nuovo padre-padrone della Libia (non hanno infatti scrupoli a sostenere l’autocrazia saudita che bombarda gli insorti yemeniti) quanto gli obbiettivi stessi del generale: dopo l’abbattimento di Muammur Gheddafi, è aborrita qualsiasi soluzione che contempli la ricostituzione di uno stato centrale, capace di trattare con le compagnie petrolifere da un punto di forza ed in grado di proiettare la Libia all’estero. Al contrario la Libia deve diventare nell’ottica americana la retrovia per le operazioni di destabilizzazione dei Paesi limitrofi, Egitto ed Algeria in testa.

Necessariamente, fedeli al proverbio che il nemico del mio nemico è mio amico, il governo laico-nazionalista di Tobruk vanta anche degli alleati, tra cui, oltre la sullodata Russia, si annoverano i Paesi intenzionati ad arrestare la destabilizzazione del Nord Africa e del Magreb: l’Egitto del generale Al-Sisi, gli Emirati Arabi Uniti, l’Algeria, e in posizione più defilata ed incerta, l‘Italia.

A questo fronte, stando alle ultime indiscrezioni, si sarebbe aggiunta anche l’Arabia Saudita, pronta a gettare il proprio peso finanziario nella lotta contro gli islamisti libici, prima che l’Egitto sia travolto.

Verso una coalizione sunnita in Libia?

È di questi giorni la notizia34 che il 18 maggio si riuniranno al Cairo i capi di stato maggiore dei Paesi arabi, per discutere di un intervento armato in Libia a favore del governo di Tobruk: presenzierebbero il generale Khalifa Haftar, oltre ad alti ufficiali di Arabia Saudita, Egitto, Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Bahrein, Giordania e Sudan. Sarebbe quindi assente, rafforzando la veridicità della notizia, la piccola monarchia del Qatar che, come abbiamo visto, è insieme alla Turchia il maggiore sponsor degli islamisti libici.

I negoziati intercorsi tra il generale Haftar ed i rappresentanti della monarchie del Golfo sarebbero approdati alla fornitura di nuove armi di fabbricazione russa per l’esercito nazionale libico ed alla consegna, da parte degli Emirati Arabi Uniti, di cinque elicotteri d’attacco Mil Mi-35: come avevamo correttamente anticipato, l’incontro a Sochi35 nell’ottobre 2014 tra Vladimir Putin ed il principe ereditario di Abu Dhabi, sceicco Mohammed bin Zayed Al Nahyan, verte proprio sulla necessità di stabilizzare la Libia, equipaggiando le forze armate di Tobruk.

I capi di Stato maggiore arabi, continua la notizia, starebbero contemplando anche la richiesta a Francia (logistica e forze speciali) ed Italia (appoggio navale) di sostenere materialmente l’operazione militare sul suolo libico.

Da sottolineare non è però tanto l’eventuale partecipazione europea all’intervento, quanto il fatto che la stessa coalizione a guida saudita che opera in Yemen contro i ribelli sciiti ed a fianco degli angloamericani, interverrebbe in Libia in aiuto del governo di Tobruk, sostenuto da Mosca ed osteggiato da Londra e Washington. Non c’è altro motivo per spiegare il dispetto saudita ai tradizionali mentori americani, se non la preoccupazione che la destabilizzazione degli angloamericani, condotta attraverso gli islamisti ed i miliziani dell’ISIS, possa debordare dei confini libici ed infettare un gigante arabo come l’Egitto.

È proprio l‘Egitto del generale Abdel Al-Sisi che ricopre un ruolo determinante nella vicenda, lavorando come pontiere tra l’Arabia Saudita (dalle cui generose elargizioni dipende il Cairo) e la Russia (con cui il Cairo ha appena firmato un inedito contratto dal valore di 3,5 $mld per la vendita di armamenti36). La partecipazione del Cairo alla campagna saudita contro i ribelli sciiti dello Yemen, non certo una priorità per l’Egitto date le circostanze, deve quindi essere letta come uno sdebitamento in cambio del sostegno di Riad all’intervento in Libia, prioritario invece per il generale Al-Sisi e ben accetto anche da Mosca.

La diplomazia egiziana ed i pericoli di una vasta destabilizzazione del Nord-Africa contribuiscono ad avvicinare due Paesi, la Russia e l’Arabia saudita, tradizionalmente in pessimi rapporti. Mosca non ha dimenticato i generosi finanziamenti sauditi all’integralismo sunnita, prima dentro i confini sovietici e poi russi: sono i soldi che transitando attraverso la Bank of Credit and Commerce International37, per finanziare i mujaheddin durante l’occupazione dell’Afghanistan ed i guerriglieri ceceni nelle estenuanti guerre degli anni ’90 e ’00.

I rapporti sono recentemente peggiorati a causa del sostegno saudita alle milizie sunnite che dal 2011 si accaniscono contro la Siria, alleato di lunga data di Mosca, nel tentativo di rovesciare Bashar Assad: sono circolate voci di velate minacce saudite di attacchi terroristici alle Olimpiadi invernali di Sochi qualora Mosca non avesse interrotto l’appoggio ad Assad38. Per contro, casa Saud non tollera i legami tra Mosca e Teheran, che spaziano dal nucleare civile alla fornitura di sistemi di difesa, come i missili S-300 recentemente consegnati.

È altamente improbabile che un eventuale intervento militare di Riad in Libia, a sostegno del governo di Tobruk per cui simpatizzano i russi, segni l’inizio di un’alleanza tra i due Paesi: piuttosto la si dovrebbe considerare come una collaborazione tattica, dove Riad salvaguarda l’alleato egiziano dalla destabilizzazione islamista e Mosca ristabilisce la propria influenza nel Paese nord-africano.

È però evidente che i rapporti tra la monarchia saudita e gli angloamericani si sono incrinati e Riad nutre ormai qualche dubbio sugli obbiettivi di lungo termine di Londra e Washington: è del 5 maggio l’articolo del Financial Times che titola “Autocracy is the cause, not the cure, of the Middle East’s ills”39.

Nel palazzo reale di Riad si domandano se, dopo Hosni Mubarak e Muammur Gheddafi, non siano i sono prossimi della lista.

bhl

 

1http://edition.cnn.com/2015/02/11/middleeast/yemen-unrest/

2http://www.jpost.com/Middle-East/Analysis-What-threat-does-an-Iranian-backed-Yemen-pose-to-Israel-385467

3http://www.un.org/press/en/2015/sc11859.doc.htm

4http://www.ft.com/intl/cms/s/0/dbbc1ddc-d3c2-11e4-99bd-00144feab7de.html#axzz3a1gQkzmF

5http://www.yementimes.com/en/1854/report/4837/Houthis-refuse-to-return-seized-weapons.htm

6http://edition.cnn.com/2015/03/26/middleeast/yemen-saudi-arabia-airstrikes/

7http://www.theguardian.com/world/2011/mar/07/sas-mi6-released-libya-rebels

8http://www.telegraph.co.uk/news/worldnews/middleeast/yemen/11500518/UK-will-support-Saudi-led-assault-on-Yemeni-rebels-but-not-engaging-in-combat.html

9http://www.english.rfi.fr/france/20150412-frances-fabius-saudi-arabia-back-yemen-bombing-campaign

10http://www.wsj.com/articles/u-s-widens-role-in-saudi-led-campaign-against-yemen-rebels-1428882967

11http://www.telegraph.co.uk/finance/newsbysector/industry/defence/11455304/Charted-the-worlds-biggest-arms-importers.html

12http://www.nytimes.com/2015/03/27/world/middleeast/saudi-arabia-houthis-yemen.html?_r=0

13https://www.youtube.com/watch?v=ZvgjXVRpvOo

14http://www.dailymail.co.uk/news/article-3062961/ISIS-thugs-release-shocking-new-video-mass-execution-dozen-Houthi-Yemeni-soldiers-shot-beheaded-cold-blood.html

15http://www.presstv.ir/Detail/2015/05/11/410582/HRW-Saudi-war-Yemen-Joe-Stork

16http://www.aawsat.net/2015/04/article55342920/houthis-on-back-foot-in-aden-saudi-defense-ministry

17http://uk.reuters.com/article/2015/05/07/uk-yemen-security-idUKKBN0NR0Q020150507

18http://uk.reuters.com/article/2015/05/07/uk-yemen-security-idUKKBN0NR0Q020150507

19http://www.arabianaerospace.aero/moroccan-and-saudi-aircraft-shot-down-in-yemen.html

20http://www.aljazeera.com/news/2015/05/cloneofcloneofcoalition-considers-yemen-humanita-150506052308407.html

21http://www.presstv.ir/Detail/2015/05/11/410571/Yemen-Saudi-Arabia-Aramco-Oil-Dhahran-Eastern-Province-Red-Crescent-Aid-Hospitals

22http://www.aljazeera.com/news/2015/05/150511081959228.html

23http://presstv.ir/Detail/2015/04/27/408301/iran-IRGC-Jafari-yemen-saudi-arabia-aggression

24http://www.lastampa.it/2015/02/14/esteri/libia-lisis-avanza-e-lancia-un-ultimatum-appelli-allonu-per-un-intervento-coordinato-84Mzio5rCe6nx6zFgawpnI/pagina.html

25http://www.theguardian.com/world/2015/mar/24/libya-us-ambassador-twitter-air-strike-post

26http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/02/25/libia-thani-occidente-non-vuole-armare-lesercito-interrotta-trattativa-onu/1453983/

27http://www.thenational.ae/world/middle-east/libyan-arms-embargo-almost-nonexistent-says-un

28http://www.africareview.com/News/PM-blames-the-West-for-the-crisis-in-Libya/-/979180/2688144/-/kn89iy/-/index.html

29http://www.reuters.com/article/2014/11/26/us-mideast-crisis-qatar-syria-idUSKCN0JA1BX20141126

30http://www.rainews.it/dl/rainews/articoli/aereo-militare-bombarda-petroliera-libia-due-morti-6db38a59-37b8-4a35-a799-b8fd5c35b9cd.html

31http://www.huffingtonpost.it/carlo-panella/libia-haftar-guerra_b_6918662.html

32http://ilmanifesto.info/sisi-e-haftar-puntano-sul-business-migranti-per-un-attacco-in-libia/

33http://feluche.blogautore.repubblica.it/2015/03/22/perche-haftar-e-un-pericolo-per-litalia/

34http://www.defensenews.com/story/defense/international/mideast-africa/2015/05/10/arab-chiefs-to-meet-on-libya-intervention/70952636/

35http://rt.com/news/198676-putin-uea-russia-nahyan/

36http://www.reuters.com/article/2014/09/17/us-russia-egypt-arms-idUSKBN0HC19T20140917

37http://english.pravda.ru/opinion/columnists/30-04-2013/124461-usa_chechnya-0/

38http://www.syrianews.cc/saudi-arabia-threatens-russia-olympic-terror/

39http://www.ft.com/intl/cms/s/0/88625538-f27c-11e4-892a-00144feab7de.html#axzz3aCFJsHCv

4 Risposte a “Dallo Yemen alla Libia frenesia saudita”

  1. Articolo molto interessante e documentato- Come interessante è tutto il blog.
    La politica degli USA nei confronti della Libia, è stata molto chiara. Nessun intervento, escluso la distruzione dello stato libico e l’uccisione del leader Gheddafi. Poi, il ritiro lasciando macerie. Indine, l’introduzione dell’Isis.
    E noi abbiamo 300.000 neri in arrivo sulle coste ogni anno…La speranza USA è diffondere il meticciato in Europa, grazie ad un trattato di Schengen?

    1. Grazie Guido. La loro politica è coerente con la strategia di destabilizzazione del Nord-Africa e del Levante.

      1. Mi piacerebbe fare con te una conversazione con te su Torri.
        Ho una chicca borsistica di quel giorno avvenuta nella borsa italiana.
        Ciao.

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