Libia: sfida Russia-USA?

Si intensifica“l’Operazione Dignità” del generale Khalifa Haftar per la riconquista di Bengasi ed incassa le benedizione del premier Abdullah al Thani in esilio a Tobruk. Ora le ostilità sono aperte e le forniture militari russe, come in Siria ed Iraq, sarebbero decisive. Si profila uno guerra per procura tra Qatar-Turchia ed Egitto-Emirati Arabi Uniti. Cavalcando la sempre più evanescente influenza francese ed angloamericana, Mosca può rientrare nel gioco dopo la sua tentata estromissione nel 2011. Gli interessi italiani non coincidono più con quelli della NATO.

La situazione sul campo.
A tre anni dalla morte del Colonello Muammur Gheddafi, il cui rovesciamento inizia con l’operazione NATO Odyssey Dawn di cui si è già persa qualsiasi memoria giornalistica o storica, la situazione in Libia è ad un punto di svolta. Dopo 36 mesi di instabilità, crisi economica e sanguinose faide, l’ipocrita velleità di ricomporre politicamente la latente guerra civile è stata accantonata dai fatti: le ambasciate chiudono e la parola passa alle armi, per un conflitto che auspicabilmente breve e risolutivo.

Il punto di non ritorno coincide con le elezioni del 25 giugno scorso, da cui emerge la nuova Camera dei Rappresentanti guidata dal premier provvisorio Abdullah al Thani che ripara a Tobruk per sfuggire alle milizie che infestano Tripoli e Bengasi. Le fazioni islamiste, riunite nel soggetto politico “Alba della Libia”, non riconoscono come legittimo il nuovo governo e, mantenendo in vita il precedente Congresso generale nazionale dove erano preponderanti, eleggono un proprio premier, il professore Omar al-Hassi.

In questo scenario di disgregazione politica, si intensifica l’attività del generale Khalifa Haftar, la cui comparsa sul palcoscenico libico risale a metà maggio quando, lanciata l’operazione Dignità, tenta un assalto al Parlamento di Tripoli etichettato dagli islamisti come “golpe”. Qualsiasi manuale che illustri le tecniche di colpo di stato, da quello di Curzio Malaparte a quello di Edward Luttwak, avrebbe sconsigliato l’operazione, poiché in un paese balcanizzato ed in preda all’anarchia il Parlamento rappresenta poco più che quattro mura e poco meno di un simbolo: non a caso, il blitz fallisce.

Khalifa Haftar ha alle spalle un travagliato passato politico e militare. Classe 1943, è tra gli ufficiali capeggiati da Gheddafi che nel settembre del 1969 rovesciano il filo-britannico re Idris, implementando un colpo di stato progettato pochi mesi prima in Italia, nei saloni di un albergo di Abano Terme, in provincia di Padova . Il 12 dicembre 1969, comincia a Milano in Piazza Fontana la lunga stagione del terrorismo neo-fascista poi brigatista ed infine mafioso, che insanguinerà l’Italia fino agli anni ’90. Coincidenza? Improbabile.

Haftar partecipa alla lunga guerra tra Libia e Ciad (1978-1987) da cui N’Djamena esce vittoriosa grazie al decisivo supporto dell’aviazione di Parigi e del denaro di Washington: gli stessi attori che nel 2011 guidano il regime change contro il Colonnello. Haftar è fatto prigioniero dalle truppe ciadiane, è consegnato agli americani ed è trasferito in Virginia , a due passi dal quartier generale della CIA, dove rimane fino al 2011, quando rientra in Libia in concomitanza alle operazioni NATO. Nell’ultimo ventennio è stato coltivato dagli USA come uno degli innumerevoli dissidenti al regime di Gheddafi, ma in un mondo fluido come quello arabo (vedi il voltafaccia di Anwar Al-Sadat ai sovietici) dove a contare sono le forniture di armamenti ed il prestigio internazionale, non è da considerare “un americano” in pianta stabile. Anzi, vedremo più avanti che è il potenziale ultimo arrivato nel club arabo “amici di Mosca” (che conta membri storici come Algeria e Siria e nuovi affiliati come Iraq ed Egitto).
Abortito il colpo di stato nel maggio del 2014, Haftar ripara nell’est della Libia, si installa nell’aeroporto Beinina di Bengasi (alla periferia della città lato Egitto) e si dedica all’allestimento di un esercito ed alla riattivazione degli sparuti MIG di cui dispone (grazie a mezzi e tecnici egiziani): a metà ottobre si sente forte abbastanza da lanciare un proclama in televisione dove annuncia che “l’esercito nazionale” è pronto a liberare tutta Bengasi .

Dismesso il profilo da “generalissimo”, Haftar riceve la simbolica ma politicamente rilevante investitura dal premier Abdullah al Thani, asserragliato a Tobruk, a riconquistare Tripoli. Le truppe paramilitari dell’ex-luogotenente di Gheddafi sono quindi promosse a esercito regolare a tutti gli effetti, avvalendosi della legittimità di cui si fregia il governo provvisorio di Al Thani (negata dagli islamisti con la recente sentenza della Corte suprema). La capitale dista 650km in linea d’aria, ma il generale Haftar ottiene perlomeno un discreto successo a Bengasi, dove le milizie islamiste nei primi giorni di novembre sono respinte ed isolate nei quartieri del porto . I morti, nel frattempo, salgono: 130 a Bengasi solo tra metà ottobre ed inizio novembre .

Chi sta con chi? In Libia…

Lo schieramento dei “nazionalisti laici” è rappresentato in Cirenaica dal governo del premier Abdullah al Thani e dal generale Haftar, sotto il cui comando sono passati i paracadutisti di Bengasi, quelli di Tobruk ed i reparti scelti del colonnello Wanis Abu Khamada ; in Tripolitania si avvale invece delle milizie della città di Zintan, dei resti della 32esima brigata del defunto Khamis Gheddafi e probabilmente delle tribù Warfalla, Gadafa e Magaria : sulla carta la superiorità numerica è assicurata.

L’islam sunnita più integralista si riunisce attorno alla formazione “Alba della Libia” che ha disconosciuto l’esito delle elezioni del 25 giugno ed ha proclamato come premier Omar al-Hassi. Ha come roccaforti la città di Misurata nell’ovest e la città di Derna nell’est ed è presente politicamente e militarmente sia a Tripoli (conquistata nell’agosto scorso dalla coalizione islamista Fajr Libya ) che a Bengasi. Le milizie islamiste si avvalgono di veterani della guerra afgana, irachena e siriana e usano sia sigle locali (LIFG e l’Ansar al Sharia che condusse l’assalto all’ambasciata americana nel settembre del 2012 ) che internazionali (Al Qaeda e ISIS). Tutte vantano una rodata collaborazione con l’MI6 inglese e la CIA statunitense (dai tentativi di assassinio del Colonnello Gheddafi negli anni ’90 all’agognato rovesciamento di Bashar Assad in Siria).

Chi sta con chi? Nell’universo mussulmano…

Algeria, Egitto ed Emirati Arabi Uniti appoggiano i nazionalisti laici. L’Algeria impegnata con la delicata fine della presidenza di Abdelaziz Bouteflika e l’Egitto del neopresidente Abd al-Fattah al-Sisi hanno fatto della lotta all’islam radicale e del nazionalismo due dei pilastri su cui edificare lo Stato. La prima ricorda ancora la decennale e sanguinosa guerra civile contro i gruppi islamisti (1991-2002) mentre il secondo è fresco di un nuovo colpo di stato in meno di tre anni che ha posto prematuramente fine all’esperienza di governo dei Fratelli mussulmani: entrambi temono il riacutizzarsi della minaccia islamica e aborriscono l’idea di una Libia in preda al caos ed alle milizie islamiche. Un terzo fattore accomuna i due popolosi stati nord-africani: la collaborazione militare con la Russia, recentemente siglata anche dall’Egitto attraverso una fornitura da 3$ mld .

Gli Emirati Arabi Uniti sono invece storici alleati e clienti militari di Washington e Parigi ma, come la monarchia saudita, considerano l’islam politico un pericoloso cancro da estirpare in casa come all’estero, soprattutto se esportato dagli odiati vicini del Qatar da cui, non a caso, hanno richiamato l’ambasciatore nel marzo del 2014 .

Qatar e Turchia sostengono gli islamisti libici. Lo fecero attivamente durante il regime change del 2011 (Doha inviò anche reparti scelti per espugnare Tripoli ) e continuano a farlo tuttora, tanto che il ministro della giustizia del governo in esilio a Tobruk ha esplicitamente accusato i due paesi di finanziare le milizie islamiche ed il generale Haftar non ha esitato a definirli sponsor del terrorismo . Le due arrembanti potenze sono però ora in evidente difficoltà a causa di una sovraesposizione internazionale di cui non reggono lo sforzo e, toccato l’apice dell’attivismo all’inizio del 2013 (sostegno agli islamisti in Libia, destabilizzazione della Siria, finanziamento ai Fratelli Mussulmani in Egitto, schermaglie con Israele tramite Hamas, etc.), sono in fase di deflusso.
Chi sta con chi? Nello scacchiere mondiale..

La Francia, smarrita dal relegamento in serie B all’interno dell’eurozona e atterrita da finanze pubbliche fuori controllo (il rapporto debito/PIL è passato dal 59% del 2002 al 95% del 2014) cerca di occultare le proprie debolezze attraverso una frenetica ed acefala politica estera (rovesciamento di Gheddafi, intervento in Mali, destabilizzazione della Siria, assertività sul dossier del nucleare iraniano, azioni aeree contro l’ISIS, etc.). Gli esisti sono inconcludenti ed a fine mese arrivano comunque le bollette da pagare, nonostante più di una volta l’Eliseo abbia tentato di scaricare sulla UE i costi della “grandeur”. Parigi soffre anche delle calanti fortune del Qatar, con cui si era lanciata a capofitto nell’avventura libica. Nella tarda estate del 2014, il ministro della difesa Jean-Yves Le Drian ha ventilato la costituzione di una seconda coalizione per intervenire militarmente in Libia . Nessuno in Europa, tra eurocrisi e polveriera ucraina, sembra però interessato ad aprire un altro fronte.

Gli Stati Uniti hanno abdicato definitivamente al ruolo di gendarme del mondo e, anziché la pax americana, dispensano a piene mani caos e destabilizzazione per tutti. Il ragionamento alla base della nuova dottrina americana è semplice: perché garantire l’ordine mondiale che arricchisce e rafforza le potenze emergenti? Molto meglio sabotare e sovvertire, lasciando che l’onere di mettere una pezza ricada sugli sfidanti alla supremazia mondiale. Scardinato l’asse Tripoli-Mosca, l’attuale caos libico rappresenta per Washington l’optimum (un simile scenario era anche auspicato in Siria) ed è probabile che si opporranno a qualsiasi iniziativa avversaria per restaurare l’autorità centrale. In ogni caso è da escludere un intervento diretto, dopo la triste fine nel settembre 2012 dell’ambasciatore-agente CIA Christopher Stevens.

Il Regno Unito ha attualmente difficoltà a mantenere una singola portaerei in servizio e, dopo il voto parlamentare nell’agosto del 2013 che ha raffreddato gli ardori bellici di David Cameron in Siria, difficilmente si lascerà coinvolgere nell’avventura libica. Per Londra, come per gli americani, il principale obbiettivo è infatti già stato raggiunto: danneggiare la relazione speciale tra Tripoli e Roma e scardinare l’asse Tripoli-Mosca.

La Russia mastica ancora amaro per essersi astenuta al momento del voto della risoluzione 1973 dell’ONU che ha permesso l’istituzione della no-fly zone in Libia, rapidamente trasformatasi in una caccia all’uomo (Muammur Gheddafi). Da allora Mosca si è prodigata in un attivismo per cui bisogna tornare ai primi anni ’70 per trovarne un precedente: difesa ad oltranza di Bashar Assad, forniture militari a Iraq ed Egitto, intensificazione dei rapporti militari ed economici con l’Iran, crescendo di tensione con i tradizionali alleati americani nella regione (Turchia ed Arabia Saudita). Dopo il regime change della NATO nel cortile di casa ucraino, le relazioni con gli americani sono poi precipitate ai tempi del rude Nikita Kruscev e qualsiasi mossaper danneggiare gli americani è gradita. La Libia è potenzialmente la prossima pedina…

La crisi si internazionalizza…

Il salto di qualità nella crisi libica avviene il 25 agosto quando sul New York Times appare un articolo dal titolo “Arab Nations Strike in Libya, Surprising U.S.” : nella settimana precedente sono stati condotti almeno due raid aerei contro le milizie islamiste impegnate nella presa di Tripoli e, sebbene il generale Haftar ne rivendichi la paternità, gli americani reputano che non disponga di mezzi per simili iniziative. Chi sono quindi i responsabili? Secondo le autorità statunitensi l’Egitto avrebbe messo a disposizione le basi aeree mentre gli Emirati Arabi Uniti avrebbero fornito aerei, piloti ed armi. L’iniziativa, continua l’articolo, ha profondamente seccato Washington e rappresenta un altro duro colpo ai rapporti già deteriorati con Il Cairo. Gli americani, fedeli al principio di riscrivere le regole di volta in volta in base ai loro interessi, da un lato addestrano in Giordania i ribelli per rovesciare Bashar Assad, dall’altro si oppongono a qualsiasi ingerenze esterna in Libia. Assieme a Francia, Italia, Regno Unito e Germania, gli USA si dicono pronti ad adottare “secondo quanto previsto dalla Risoluzione 2174 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, sanzioni individuali contro coloro che minacciano la pace, la stabilità e la sicurezza della Libia o contro coloro che si oppongono o tentino di sabotare il processo politico” . Esprimono poi “preoccupazione” dagli attacchi del generale Haftar contro le milizie islamiste.

Ora, se gli Stati Uniti non solo lesinano qualsiasi aiuto al premier Al Thani ed al generale Haftar ma pure condannano il coinvolgimento di Egitto ed Emirati Arabi nella strisciante guerra libica, a chi può rivolgersi la coalizione che combatte gli islamisti finanziati da Qatar e Turchia? Magari alla stessa potenza che in Siria sostiene il regime laico di Assad contro un analogo fronte integralista: la Russia di Vladimir Putin.
Apre le danze il principe Mohammed Zayed Al Nahyan, comandante supremo delle forze armate degli Emirati Uniti, che il 23 ottobre incontra a Sochi il presidente Vladimir Putin. Tra i due stati esiste una “relazione speciale” con cui si affrotano il dossier israeliano-palestinese, quello iracheno e, ovviamente, quello libico . A questo punto, è necessario che Vladimir Putin cementi il sostegno alla coalizione anti-islamista, inviando un messaggio inequivocabile all’Egitto: detto, fatto. Sabato 25 ottobre, il presidente russo loda pubblicamente Al-Sisi per essere intervenuto in Libia, salvando il paese dal caos e dagli estremisti .

Ed i diretti interessati, i libici, cosa ne pensano? Il premier Al-Thani ha recentemente invitato la Russia ad assistere la Libia nella ricostituzione delle forze armate, con la fornitura di armi ed istruttori. Inoltre il premier, entro fine novembre, si recherà in visita a Mosca per discutere della crisi che attanaglia il paese . Probabilmente il premier Al-Thani ed il generale Haftar hanno già una precisa richiesta da avanzare a Mosca: un lotto di elicotteri Mil Mi-28NE e Mil Mi-35M il cui impiego in Iraq contro l’ISIS è stato dirimente, specie se rapportato agli sporadici ed effimeri raid americani e francesi.

Cosa può fare Washington per ostacolare il prepotente ritorno di Mosca in Libia? Ben poco, considerato che l’unica strada percorribile sarebbe aumentare il sostegno finanziario e militare a quelle sigle dell’islam integralista che, almeno formalmente, sono combattute in Iraq.

All’Italia servirebbe un bagno nelle chiare, fresche et dolci acque della realpolitik.

Al gracile corpo dell’Italia serve un bagno purificatore nelle limpide acque della realpolitik, per lavare via le incrostazioni ed i residui di troppi anni di illusioni, politically correct ed assoggettamento politico e culturale che hanno ridotto il paese all’attuale stato di degrado. Prendere coscienza della propria condizione ed abbattere i falsi idoli (un’Europa politicamente unita e la solidarietà nordatlantica) è il presupposto per qualsiasi ripartenza: l’impresa è titanica e richiede un tale ripensamento della nostra politica estera da necessitare una sostituzione della classe dirigente.

Nell’estate del 2011 siamo stati investiti da un doppio treno: la crisi dell’eurozona e la destabilizzazione del Mediterraneo targata NATO. La prima ci ha costretto ad adottare le politiche di austerità che hanno devastato il nostro sistema produttivo, mentre la seconda ha sostituito il flusso in uscita delle nostri merci verso i paesi arabi con il flusso in entrata di profughi e clandestini. Proseguire su questa strada non è possibile.
La pacificazione della Libia, accettando quindi i costi militari ed umani che questo comporta, è una priorità dell’Italia: il petrolio libico, la sicurezza delle frontiere ed i reciproci scambi commerciali sono beni cui non possiamo rinunciare.

I forti legami economici con la Federazione Russa, gli Emirati Arabi Uniti ed l’Algeria non dovrebbero lasciare all’Italia il minimo dubbio su chi sostenere nella guerra che si combatte in Libia: è nostro interesse che i nazionalisti laici, guidati dal premier Al-Thani ed dal generale Haftar, escano vittoriosi ed in tempi brevi dal conflitto. Al ministro della difesa Roberta Pinotti in visita al Cairo devono aver spiegato che musica si suona nell’ex-colonia italiana: ne è scaturita una disponibilità a formare ed equipaggiare le forze armate libiche . Alle parole seguiranno i fatti?

Pubblicato su “Oltrelanotizia” il 9/11/2014