L’ennesimo appuntamento decisivo per il destino dell’euro, il varo dell’allentamento quantitativo da parte della BCE, è passato: l’ex –Goldman Sachs Mario Draghi ha avviato un piano di acquisto di titoli di stato con scadenza tra i 2 ed i 20 anni per un importo di 1140 €mld sull’arco di 19 mesi, tra il marzo 2015 ed il settembre 2016. I rendimenti dei titoli di stato scendono a nuovi minimi, l’euro si deprezza, le borse salgono e tutti gli esponenti del multiforme establishment euro-atlantico gioiscono: “il quantitative easing sta già funzionando!” esulta la direttrice generale del FMI Christine Lagarde, “una svolta per la ripartenza dell’Europa!” rassicurano i responsabili economici del Partito Democratico nostrano.
Passa però in secondo piano il nocciolo della questione, il nodo che aveva indotto gli analisti a parlare di decisione dirimente per le sorti dell’euro, salvo poi essere prontamente ridimensionati dalla cancelliera Angela Merkel con un asettico: “Non parlerei di settimana decisiva dell’eurozona”. Eppure si era a lungo parlato della questione nei giorni precedenti alla conferenza di Mario Draghi, enormi pressioni sulla Germania erano state esercitate in questo senso da tutto il mondo finanziario anglosassone e dalle istituzioni del Wasghinton consensus come il FMI e l’ex-governatore della Banca Centrale di Cipro, Athanasios Orphanides, l’aveva esplicitato in un’intervista: attenzione a chi andranno in pancia i titoli di stato acquistati coll’allentamento quantitativo, se alla BCE o alle banche centrali nazionali!
L’intervista di Orphanides rilasciata a Repubblica titolava non a caso “Se passa la linea di Berlino sui bond, Eurolandia rischia la disintegrazione” e si sosteneva che qualora avesse prevalso la strategia di Berlino per cui i rischi derivanti dall’acquisto dei titoli di stato europei non sarebbero stati condivisi tra i vari Stati in seno alla BCE ma riversati sulle varie banche centrali nazionali, si sarebbe lanciato il messaggio agli investitori che Francoforte si preparava alla rottura della moneta unica.
Nella fase più acuta della crisi, il biennio dello spread rosso tra il 2011 ed il 2012, la BCE si era prodigata nell’acquisto di bong governativi per un importo di circa 200 €mld, quel tanto che serviva a calmierare i rendimenti senza abbassare troppo la tensione, utile ad estorcere cessioni di sovranità dagli Stati nazionali in favore degli organismi di Bruxelles. In quell’occasione la BCE si era però ben guardata dallo scaricare i rischi dei titoli di stato sulle rispettive banche nazionali, perché avrebbe dato il segnale che l’euro-implosione era imminente.
Ebbene, contravvenendo agli ammonimenti del FMI e abiurando le scelte passate, la BCE ha varato su pressione tedesca un allentamento quantitativo che ripartisce il rischio derivante dall’acquisto dei bond sulla banche centrali nazionali per un 80%, e sulle istituzioni europee, BCE compresa, per un 20%.
La scelta è di importanza decisiva e segnala un rapida accelerazione dello smantellamento dell’eurozona e di qualsiasi progetto di unione politica tra i membri.
L’unione monetaria era stata partorita dalle élite di Bruxelles come espediente per ottenere l’unione fiscale e quindi politica dell’eurozona, i tanto agognati Stati Uniti d’Europa. Il blitzkrieg teso a svuotare gli Stati nazionali di dosi crescenti di sovranità raggiunse lo zenit nella primavera del 2012, il periodo dei minimi in borsa e degli spread alle stelle, ma fallì l’obbiettivo dell’unione politica nel decisivo vertice di Bruxelles del 28-29 giugno 2012, per poi trasformarsi in una ritirata più o meno ordinata (vedi il disastro dei capitali bloccati a Cipro), destinata presto o tardi a diventare capitolazione.
La decisione della BCE di ieri dimostra che la classe dirigente tedesca non solo dà per scontato la fine dell’euro ma ne prevede anche lo smantellamento in tempi brevi, avendo scelto di adottare una manovra monetaria che velocizza la rinazionalizzazione del mercato dei capitali.
In sostanza oggi abbiamo:
- Un’unione monetaria senza trasferimenti fiscali per compensare i disequilibri economici;
- Un mercato dei capitali dell’eurozona che è sempre più nazionale e dà nuovamente segnali di tensione: le passività dell’Italia sul sistema di pagamenti europeo Target2 hanno superato nel dicembre 2014 i 200 €miliardi, non lontano dai 290 €mld toccati nel bollente agosto 2012;
- una dinamica in atto di riacquisto da parte degli istituti nazionali del rispettivo debito sovrano (i detentori di btp esteri sono passati dal 50% del totale nel 2006, al 35% alla fine del 2014);
- un’area monetaria non ottimale, pesantemente indebitata ed afflitta ora anche dalla deflazione.
A ciò si aggiunga:
- Il Fiscal compact che, firmato nella primavera 2012 e presentato come conditio sine qua non per la sopravvivenza dell’eurozona, è stata procrastinato sine die;
- Una velleitaria manovra fiscale espansiva da 300 €mld, il cosiddetto “piano Junker”, dove i fondi proverrebbero per 5 mld dalla BEI, per 15 mld da giri di partita del bilancio UE e per 280 mld da ipotetici investimenti privati stimolati dai soldi di cui prima;
- Un motore franco-tedesco ormai in panne dove la Francia, il cui debito dall’introduzione dell’euro è esploso sino a raggiungere il 95% del PIL, non vuole né soprattutto riesce a rispettare i parametri fissati dalla Commissione europea;
- Un’economia europea che uscendo dalla Germania verso l’euro-periferia passa dalla modesta crescita, alla stagnazione francese per terminare nella depressione economica dei PIGS;
- Un’ondata crescente di movimenti politici che ripudiano le ricette della Troika o addirittura l’euro e potrebbero conquistare domenica 25 gennaio il primo governo, quello greco;
- Bond governativi dai rendimenti nulli grazie ai massici acquisti degli istituti bancari (arrivati in Italia a detenere 415 mld di titoli di Stato) che non impiegano però i prestiti a tasso zero concessi dalla BCE per erogare credito a imprese e famiglie;
- Capitali che, col pretesto dell’allentamento quantitativo di Mario Draghi, sono usciti dall’euro verso qualsiasi porto sicuro (dollaro, franco svizzero ed oro).
Ne esce un panorama di avanzata decomposizione dell’eurozona, sugellato dalla decisione di ieri della BCE di scaricare l’80% dei rischi derivanti dall’acquisto dei titoli di stato sulle banche centrali nazionali.
La classe dirigente tedesca ha ormai archiviato l’euro ed il progetto di integrazione sottinteso dalla moneta unica che avrebbe comportato la rinuncia all’economia sociale di mercato in favore del capitalismo anglosassone ed il distacco dal continente euroasiatico a vantaggio dell’Atlantico.
Ieri la Germania ha parlato chiaro attraverso il piano di allentamento quantitativo della BCE: l’esperimento euro si è concluso e la prossima crisi, che potrebbero essere le elezioni greche di domenica, sarà l’ultima.
Perfetto. Tutto verificato dopo sei mesi..
Ora attendiamo il Grexit, se la Germania riesce a superare il veto di Obama.
Forse Merkel, per prudenza, rinvierà la crisi greca di sei mesi…nella speranza che sia Atene stessa ad uscire.
Non concederà sconti sul debito, lasciandolo inesigibile.
Ma si opporrà a concessioni generose..Tsipras chiede 53 miliardi…va bene se ne daranno 3 per motivi umanitari..Li lasceranno a fare le riforme, e vedranno il bluff…In sei mesi tutto si risolve.