Charlie Hebdo e la guerra che Obama non ha fatto

Non sono state fatte economie per la campagna mediatica che ha seguito l’attentato a Charlie Hebdo: diffusione virale di “Je suis Charlie”, manifestazioni di piazza, richiami al 9/11, evocazione di scontri tra civiltà ed infine l’imponente marcia di Parigi alla cui testa, ben isolati dagli altri manifestanti, hanno sfilato 44 di capi di stato. Alla commuovente marcia dell’11 gennaio spiccava però una grande assenza: quella di Barack Obama. In sua vece il presidente ha inviato l’ambasciatrice Jane Hartley, accompagnata dalla responsabile per gli affari europei Victoria Nuland, nota alle recenti cronache per il suo coinvolgimento nel golpe ucraino.

L’assenza di Obama alla marcia di Parigi è politicamente rilevante? Noi crediamo di sì: segnala il suo smarcamento dall’attentato a Charlie Hebdo e dagli obbiettivi ultimi che si proponeva chi ha eterodiretto la strage al settimanale satirico: l’intervento militare in Yemen, per impedire l’avanzata dei ribelli sciiti vicini a Teheran con il pretesto della lotta ad Al Qaida. Il paese arabico, altro dato molto significativo, non è stato neppure nominato durante il discorso presidenziale sullo stato dell’Unione del 20 gennaio.

Tutte le strade portano in Yemen

In Yemen si sarebbero addestrati nel 2011 i fratelli Kouachi che, riferiscono i sopravvissuti alla strage, hanno sottolineato di essere affiliati ad “Al Qaida in Yemen” ed è stata la stessa organizzazione terroristica sunnita a rivendicare l’attentato con due videomessaggi. Al Qaida nella Penisola Arabica è nota alle cronache per due maggiori azioni terroristiche: l’attacco alla nave USS Cole del 2000 nel porto di Aden ed il fallito attacco suicida nel 2009 di Umar Farouk Abdulmutallab, “il terrorista delle mutande”, sul volo Amsterdam-Detroit. Entrambi furono implementati, proprio come la strage a Charlie Hebdo, grazie a macroscopiche falle nella sicurezza ed a coincidenze troppo fortuite per essere plausibili.

Nonostante Al Qaida in Yemen abbia la presunta forza per lanciarsi in operazioni internazionali, è proprio in casa che ha trovato negli ultimi mesi pane per i suoi denti: dopo pesanti sconfitte militari è stata scalzata dalle sue roccaforti dall’avanzata degli sciiti zaidi, guidati dalla tribù Houthi e sostenuti dall’Iran. In quella che si profila come una vera e propria rivoluzione, gli sciiti hanno prima circondato la capitale Sanaa e poi espugnato in questi giorni il palazzo presidenziale, occupato finora dal filo-saudita e filo-americano Abdrabuh Mansur Hadi.

È in questo agitato quadro politico, dove un Paese strategico come lo Yemen rischia di uscire dall’orbita americano-saudita per entrare in quella iraniana, che deve essere collocato “l’11 settembre europeo” rivendicato da Al Qaida in Yemen: nella mente di chi l’ha architettato rappresentava l’ultima occasione per un rapido intervento militare prima che Sanaa capitolasse e gli sciiti filo-iraniani prendessero il sopravvento.

Anche questa volta, però, il Presidente Barack Obama non è stato alla partita: ha evitato la marcia di Parigi, non ha citato lo Yemen tra i paesi caldi per la lotta al terrorismo e le uniche navi americane in rotta verso il golfo di Aden sono quelle per un’eventuale evacuazione del personale diplomatico. Perché diciamo anche questa volta? Perché c’è un precedente analogo.

Il precedente delle armi chimiche in Siria

Attorno alla fine dell’agosto 2013 i giornali e le tv furono inondati dalle scioccanti immagini dei bambini e delle donne gasati nel quartiere di Ghouta, periferia di Damasco e roccaforte dei ribelli: secondo la versione ufficiale i responsabili erano le truppe governative che, animate da spirito suicida, avrebbero impiegato il gas sarin contro i miliziani nonostante ciò comportasse la violazione della famosa “linea rossa” fissata dagli USA. Non fu mai stabilito il numero preciso delle vittime, oscillanti tra le 300 e le 1.500. Fu però scoperto grazie alla testimonianza del belga Pierre Piccinin, prigioniero degli insorti in quei giorni insieme a Davide Quirico, ed al lavoro del giornalista Seymour Hersh, che l’attacco col gas sarin era stato una provocazione dei ribelli per facilitare l’intervento occidentale.

Quando ai primi di settembre tutto era comunque pronto e l’intervento della NATO sembrava imminente, Barack Obama si tirò inaspettatamente indietro, accettando un compromesso con Mosca per lo smantellamento dell’arsenale chimico siriano. Il mancato intervento americano in Siria fece precipitare le relazioni tra Barack Obama da una parte ed Israele e l’Arabia Saudita dall’altra: il gelo divenne poi artico quando poche settimane dopo Barack Obama riallacciò il dialogo con l’Iran tra gli strali di Benjamin Netanyahu e di casa Saud.

L’attacco chimico a Ghouta del 2013 e la strage a Charlie Hebdo nascondono probabilmente gli stessi mandanti che in Siria auspicavano l’intervento americano per rovesciare Assad, filo-iraniano ed alleato di Mosca, mentre in Yemen speravano di arginare l’avanzata degli sciiti supportati da Teheran con il pretesto della guerra ad Al Qaida.

In entrambi i casi Obama ha marcato visita, scatenando le ire dei repubblicani che per bocca del senatore John McCain dipingono apocalittici scenari per lo Yemen in mano agli sciiti zaidi.

Prossimi sviluppi?

La “vendetta” per Charlie Hebdo si limiterà ad incremento dei velleitari raid aerei contro l’ISIS, il cui ridimensionamento è opera soprattutto dell’intervento di terra dell’esercito iracheno e siriano.

Che lo Yemen sia lasciato cadere senza colpo ferire nell’orbita iraniana non è però verosimile: gli USA in accordo con i loro alleati regionali si adopereranno perché, nella peggiore delle ipotesi, lo Yemen si “somalizzi” e sia mantenuto almeno il controllo di Aden: non è azzardato ipotizzare che, come in Siria e Iraq, compaia dal nulla l’ISIS in chiave anti-sciita.

I sauditi poi, piccati per il mancato intervento americano in Yemen, potrebbero spingere ulteriormente al ribasso il prezzo del greggio, per svuotare le casse dell’Iran e come rappresaglia contro gli USA che hanno investito sul petrolio di scisto, antieconomico sotto i 60$ al barile.

Rimane l’interrogativo su cosa sarebbe accaduto se l’attacco chimico in Siria del 2013 e la strage di Charlie Hebdo fossero avvenuti con un presidente alla Casa Bianca diverso da Barack Obama. Una risposta l’avremo solo nel 2016, quando le presidenziali sanciranno la probabile vittoria di Jeb Bush o Hillary Clinton: il petrolio tornerà a 150$ al barile?