Nelle sabbie mobili yemenite

 

Una rivoluzione che scuote lo Yemen; un esercito arabo che interviene nell’ottica di una rapida vittoria ed affonda nelle sabbie mobili di una guerra asimmetrica; una potenza anglosassone declinante che abbonda la regione, preoccupata solo che il caos divampi alle sue spalle: anno 2015? No, metà anni ’60, quando il generale Nasser si contende con i sauditi il controllo dello Yemen ed il Regno Unito, economicamente a pezzi, si ritira da Aden. Riflettendo su quegli avvenimenti, si comprende l’attuale politica americana in Medio Oriente e la pericolosità dell’intervento saudita, un nuovo potenziale Vietnam.

Quando la sfida era il Cairo vs. Riyad

Nota: per la stesura del paragrafo ci basiamo su “The Two Yemens” di Robin Bidwell, Westview Press, 1982.

L’ultima volta che lo Yemen fu teatro di una guerra per la supremazia nel mondo arabo fu negli anni ’60: altri attori ed altre ideologie, ma la dinamiche di fondo presentano forte analogie con la situazione attuale e rendono perciò utile la loro attenta analisi.

Potenza emergente e revisionista di allora è l‘Egitto del generale Gamal Abdel Nasser (1918-1970) che nel 1952 rovescia il filo-britannico re Faruq ed avvia un’aggressiva politica estera per espellere gli inglesi da tutto il Medio Oriente, riaffermando così il tradizionale ruolo guida dell’Egitto nell’universo arabo: fautore di una terza via tra capitalismo e comunismo, Nasser è attento a conservare un margine d’azione rispetto a Mosca ed allaccia stretti legami economici e militari con la Yugoslavia di Tito.

Potenza decadente e su posizioni difensive è invece il Regno Unito che, dopo aver abbandonato le isole caraibiche (1958 con l’effimera Federazione delle Indie Occidentali) e Cipro (1959), lotta disperatamente per mantenere il controllo di Singapore ed Aden: nel piano strategico che il ministro della difesa inglese stila nel 1957 il presidio degli stretti di Malacca e di Bab el-Mandeb è considerato una conditio sine qua non per una potenza dalle ambizioni ancora globali. L‘importanza di Aden è aumentata esponenzialmente dopo che l’altra imboccatura del Mar Rosso, il canale di Suez, è stato nazionalizzato da Nasser nel 1956 e l’utilità del base yemenita per difendere i pozzi petroliferi è stata dimostrata dalla ribellione in Oman del 1957 e dai tentativi iracheni di inglobare il Kuwait nel 1961, prontamente soffocati dalle truppe inglesi di stanza ad Aden. I soldi però scarseggiano ed i tentativi di Londra di scaricare sugli americani una parte del bilancio della difesa falliscono puntualmente: Washington desidera infatti smantellare il vecchio colonialismo europeo, per sostituirlo con il neo-colonialismo finanziario ruotante attorno al FMI-Banca Mondiale.

Potenze interessate a mantenere lo status quo nella regione sono invece l‘Arabia Saudita di re Faysal e l’Iran dello scià Mohammad Reza Pahlavi: entrambi sono parte integrante del sistema di approvvigionamento energetico angloamericano ed aborriscono la politica nazionalista, pan-arabista ed anti-britannica di Nasser.

È proprio sull’Arabia Saudita che gli inglesi e gli americani fanno affidamento quando l’Egitto nazionalista lancia un’Opa ostile sullo Yemen per conquistare la supremazia sul Mar Rosso e, di riflesso, sulla penisola arabica. I confini dello Yemen degli anni ’60 non corrispondono alle attuali cartine: lo Yemen propriamente detto, quello dove si avventurano Nasser ed il suo esercito, è quello del Nord, popolato dagli sciiti zayditi di cui gli attuali ribelli Houthi sono gli ultimi epigoni. A sud è invece la Federazione dell’Arabia del Sud, un contenitore dove gli inglesi tentano di fondere Aden con i sultanati circostanti, naturali entroterra della città.

Nel settembre del 1962 è incoronato re dello Yemen Muhammad Badr, erede degli imam zayditi che hanno liberato il paese dal dominio ottomano: l’esercito yemenita è però sotto influenza egiziana e, dietro istruzioni del Cairo, è organizzato un colpo di stato portato a termine dal Movimento degli Ufficiali Liberi, un facsimile di quello che ha insediato Nasser al potere. Appena incoronato Badr è già spodestato e Radio Sanaa fa circolare una falsa notizia del suo assassinio. Trascorrono poche ore perché sia dichiarata la Repubblica Araba dello Yemen di ispirazione socialista e nasseriana: gli uomini rimasti al re fuggono in Arabia Saudita che, a partire da quel momento, si proclama paladina della monarchia yemenita e degli zayditi che lottano gli egiziani.

Fedele agli accordi che Nasser ha preso con i rivoluzionari, impegnandosi a difendere la repubblica da qualsiasi aggressione britannica o saudita, nell’ottobre del 1962 il Cairo sbarca carri armati, aerei e truppe di terra, stimate in 10.000 uomini dai giornalisti occidentali: è l’inizio di una campagna che nei piani di Nasser dovrebbe essere una passeggiata di salute, primo passo per il riassetto dell’intera penisola arabica. Gli esperti di guerriglia inglesi pronosticano, al contrario, che l’esito dell’intervento egiziana è tutto fuorché scontato, consigliando a Londra di trasformare Aden e la Federazione dell’Arabia del Sud in una base per la guerriglia anti-egiziana: Sanaa Radio e Cairo Radio, di risposta, annunciano che liberare lo Yemen del Sud dai britannici è una priorità della rivoluzione.

Nel dicembre del 1962 Nasser alza il numero dei militari egiziani in Yemen a 12.000 e l’impresa assorbe ora un terzo del budget della difesa; nella primavera del 1963 gli uomini salgono a 28.000 e all’aviazione è fornito il napalm nel tentativo di sradicare la guerriglia dalle montagne e dai villaggi: gli zaydi sono però coriacei e per tagliare loro i rifornimenti gli aerei egiziano estendono il proprio raggio d’azione a 60 miglia dentro i confini sauditi. Il Cairo, nel tentativo di conquistare l’appoggio della popolazione, appoggia le storiche rivendicazioni territoriali dello Yemen sull’Arabia Saudita (la regione dell’Asir oggi parzialmente occupata dai ribelli Houthi). Riyad interrompe ogni relazione diplomatica con l’Egitto, mobilita l’esercito ed invoca il soccorso degli USA che, John Kennedy presidente, si fanno garanti dell’integrità territoriale saudita: aerei e consiglieri militari statunitensi confluiscono nel Golfo per sostenere i Saud mentre le navi stazionano davanti all’Egitto, applicando la classica politica delle cannoniere.

È però il territorio dello Yemen del Nord la croce delle truppe egiziane: montagnoso ed impervio, tagliato in perpendicolare da vette che superano i 3.000 metri, bagnato da piogge monsoniche nei mesi estivi, il suo paesaggio presenta forti analogie con l’Afghanistan, offrendo in primis la possibilità per una forza che abbia dimestichezza col territorio (ieri gli Zaydi oggi gli Houthi) di sviluppare una feroce guerriglia che, in un Paese poverissimo, si trasforma volentieri in saccheggio: i carri armati egiziani sono attirati lontano dalle arterie principali, neutralizzati tappando il tubo di scarico, gli equipaggi uccisi e derubati di ogni avere. Il numero crescente di caduti e le efferatezze cui sono sottoposti i prigionieri, innervosiscono il Cairo che (proprio come la coalizione saudita di oggi) reagisce con un indiscriminato impiego dell’aviazione.

Allarmato dalla crescente influenza russa sulla Repubblica Araba dello Yemen (nei primi mesi del 1964 si contano tra i 1.000 ed 1.500 “esperti sovietici” a Sanaa) Nasser aumenta ulteriormente il numero di soldati nella speranza che un ultimo, decisivo, sforzo spezzi la resistenza dei monarchici: con 60.000 uomini, quasi la metà dell’esercito egiziano, l’agognata vittoria sembra nella tarda primavera del 1964 a portata di mano. Lo sfondamento, però, fallisce: gli Zaydi resistono fino all’arrivo delle piogge monsoniche che vanificano l’uso dei carri ed aerei. Di fronte ad un numero crescente di caduti, Nasser valuta nei primi mesi del 1965 un ritiro parziale delle truppe e, nei colloqui privati, maledice l’intervento in Yemen, “il suo Vietnam”.

Il Cairo può almeno consolarsi con i brillanti risultati conseguiti nella limitrofa Federazione dell’Arabia del Sud: la martellante propaganda di Radio Cairo, l’organizzazione del National Front for the Liberation of Occupied South Yemen (FLOSY) e la pianificazione di scioperi ed attentati anti-britannici, rendono sempre più precaria la posizione degli inglesi ad Aden.

Nel 1965 il terrorismo fa un salto di qualità: i servizi egiziani prendono di mira gli ufficiali del Police Special Branch eliminandone cinque in pochi mesi (un’analoga decapitazione dei vertici delle forze di sicurezza avviene nel 2013 in Libia per mano angloamericana), chiunque collabori con le autorità inglesi è minacciato di morte e diversi ordigni esplodono in cinema, aeroporti ed abitazioni private. Uccidere gli imperialisti è per Radio Cairo non solo legittimo ma anche uno dei principali obbiettivi delle rivoluzione: a fine anno si contano 48 caduti tra le forze di sicurezza inglesi, 60 tra i civili e 115 terroristi uccisi. Se a ciò si aggiungono gli scioperi che bloccano con crescente frequenza ogni attività ad Aden si comprende l’onerosità per Londra di mantenere una presenza militare nell’Arabia Felix, che di suo costa già 200 ₤mln l’anno.

L’impegno ad est di Suez è ormai troppo gravoso per la casse di Londra ed il ministro della difesa Denis Healey annuncia nel gennaio del 1966 che la Federazione dell’Arabia del Sud diverrà indipendente entro due anni, senza che inglesi conservino alcuna struttura militare.

L’annuncio di Londra galvanizza Nasser, deciso a rimanere in Yemen fin dopo la partenza degli inglesi, nella speranza che il FLOSY da lui controllato conquisti la Federazione del Sud e sia possibile unificare i due Yemen sotto l’egida egiziana. I combattimenti contro i Zayditi si fanno però sempre più intesi, il Cairo ritira le postazioni più avanzate limitandosi al controllo dei centri urbani, il materiale bellico deperisce velocemente e le truppe accusano una crescente spossatezza: la macchina egiziana si sta ingrippando e mancano le risorse per tenerla a pieno regime.

È il 1967: la dispersione di energie nelle sabbie mobili yemenite è la principale causa della disfatta egiziana nella guerra dei Sei Giorni combattuta contro Israele. Il Generale Gamal Nasser non si riprenderà più dalla sconfitta a da contendente dei sauditi per la supremazia nel mondo arabo si trasforma in loro mantenuto: ironicamente i 70.000 soldati del Cairo che lasciano la Repubblica Araba dello Yemen nel gennaio del 1968 viaggiano su navi saudite.

La debacle araba nella guerra dei Sei Giorni alimenta il clima di isteria e terrore che regna ormai sovrano ad Aden: gli attentati diventano così frequenti che le autorità inglesi consigliano di licenziare il personale indigeno a meno che non sia strettamente indispensabile. Poiché la Federazione dell’Arabia del Sud che dovrebbe ereditare dagli inglesi il controllo del Paese sta morendo in fasce, tutto il peso della sicurezza ricade sulle truppe inglese: la situazione precipita nel giugno del 1967 quando la polizia araba di stanza nei quartieri occidentali di Aden, “il Cratere”, si ammutina. Aden è terra di nessuno.

L’ultima mossa mossa di Londra prima di abbandonare il Paese consiste nell’evitare che il FLOSY sostenuto dagli egiziani abbia il sopravvento, fornendo a Nasser una nuova base per la destabilizzazione della penisola arabica: tutto il residuo peso militare e politico di Londra è quindi gettato a supporto del marxista National Liberation Front (che fine a quel momento era stato uno dei più agguerriti ed efferati oppositori degli inglesi). I comunisti, grazie al supporto inglese ed al placet saudita, possono schiacciare i ribelli concorrenti e conquistare le aree controllate dal FLOSY. Nel novembre del 1967 la crisi di Aden volge al termine con la partenza delle ultime truppe inglesi: “divide et impera” è stata la regola d’oro dell’impero britannico fino al suo ultimo respiro.

Sono sintomatiche le parole pronunciate dal presidente della Camera dei Comuni, il fervente sionista Richard Crossman (1907-1974), in occasione dell’addio inglese ad Aden ed al collasso della Federazione dell’Arabia del Sud:

“That the regime we backed should have been overthrown by terrorists and has forced our speedy withdrawal is nothing but good fortune. It now looks as though we shall get out of Aden without loosing a British soldier, chaos will rule soon after we’ve gone and there’ll be one major commitment cut – thank God.”

Sostituite i marxisti del NLF con i terroristi sunniti dell’ISIS ed Aden con l’intero Medio Oriente, e l’esternazione di Crossman si adatterà perfettamente all’attuale politica degli USA nel Levante e nel Nord Africa:

“Chaos will rule soon after we’ve gone and there’ll be one major commitment cut – thank God.

Quando la sfida è Teheran vs. Riyad

Della rivoluzione yemenita ci siamo occupati una prima volta nell’articolo “Dallo Yemen alla Libia frenesia saudita”: in estrema sintesi gli Houthi che vivono nei confini della vecchia Repubblica Araba dello Yemen (i diretti eredi degli Zaydi contro cui combatte Nasser) si ribellano al governo centrale filo-americano e filo-saudita, ricevendo supporto dai reparti dell’esercito fedeli al deposto presidente Saleh (ex-capo dello Yemen del Nord) e dall’Iran, paladino dell’islam sciita cui appartengono anche gli Houthi. Immediata scatta anche la reazione di Al Qaida/ISIS che, confermando per l’ennesima volta la loro eterodirezione da parte delle monarchie sunnite e degli angloamericani, si accaniscano prontamente contro i ribelli.

La conquista della capitale Sanaa da parte degli Houthi getta nel panico gli USA (che abbandonano precipitosamente l’ambasciata), gli israeliani (che aborriscono l’avanzata di Teheran verso il Mar Rosso) ed i sauditi che, proprio come ai tempi dell’avventura egiziana, temono che lo Yemen diventi una testa di ponte per destabilizzare l’intera penisola arabica.

Si ripete in sostanza lo stesso copione degli anni ’60: Riyad invoca l’aiuto americano, gli USA inviano consiglieri militari e navi da guerra per rafforzare il blocco navale attorno allo Yemen, Regno Unito e Francia esprimo il loro sostegno ai sauditi e forniscono con gioia armamenti, Israele mette a disposizione di Riyad i propri servizi d’informazione1.

Entro i primi tre mesi del 2015 la coalizione approntata dal neo ministro della Difesa saudita, il trentenne principe Mohammad bin Salman, è operativa: partono quindi i raid aerei cui partecipano anche gli Emirati Arabi Uniti, il Qatar, il Bahrein, il Kuwait, la Giordania, il Marocco e, questa a volta a fianco di Riyad, l’Egitto del generale Al-Sisi. Scopo dell’operazione è scongiurare nell’immediato la caduta di Aden (che nell’aprile 2015 sembra imminente) e, in un secondo momento, reinstallare a Sanaa il governo filo-saudita rovesciato dagli Houthi.

Se il primo obbiettivo è ottenuto grazie ad un uso indiscriminato all’aviazione, riconquistare Sanaa e installare un governo con una parvenza di autorità, necessita di una forza di terra: nella prima decade di agosto 2.800 soldati di Arabia Saudita, EAU e Qatar atterrano nei pressi di Aden2 ed il loro numero aumenta velocemente fino agli attuali 10.000, una cifra importante, che implica la probabile mobilitazione di almeno metà delle unità combattenti disponibili, considerato che nel 1991 i sauditi prestano all’operazione Desert Storm 20.000 soldati.

Come procede l’intervento?

Occorre fare alcune considerazioni: prima di tutto, scegliendo Aden come base di partenza (dove l’influenza saudita è tradizionalmente più forte e la presenza degli Houthi/Zaydi modesta), tutti i risultati conseguibili “in discesa” sono già stati raggiunti. La parte difficile inizia ora che la coalizione (dotata di carri francesi Leclerc, Abrams MIA2 e blindati Oshkosh M-ATV) si spinge verso nord, nei territori della ex-Repubblica Araba dello Yemen, che negli anni ’60 fu il Vietnam di Nasser e delle truppe egiziane.

Del conflitto yemenita filtrano poche notizie, a causa della sua natura di “guerra sporca” di cui meno si parla e meglio è, ma dal materiale disponibile si evince che il conflitto nello Yemen del Nord ha già assunto tutte le caratteristiche della guerra asimmetrica in ambienti montani che è costata la disfatta a Nasser negli anni ’60 ed ai sovietici ed americani il dissanguamento in Afghanistan: valichi di montagna bloccati3, attacchi a guarnigioni periferiche4, guerriglia con razzi anti-carro5, cecchinaggio6 che miete talvolta vittime eccellenti (vedi l’uccisione di un generale saudita negli ultimi giorni di agosto7), assalti alle basi più avanzate8.

Grazie alla probabile consulenza di tecnici russi o iraniani, l’obsoleto arsenale missilistico yemenita riesce poi a sferrare saltuari ma letali colpi: si consideri il missile balistico Tochka9 lanciato il 4 settembre a nord di Aden contro una base delle coalizione saudita, costato la vita ad almeno 45 soldati degli Emirati Arabi10.

Quali sono le prospettive per spedizione saudita ora che avanza verso Sanaa, cuore dello Yemen del Nord e roccaforte degli Houthi? Purtroppo per Riyad, sono alte le probabilità che come gli americani sono affondati nello stesso pantano afgano in cui caddero i sovietici, così la sorte che aspetta la coalizione saudita non sia diversa da quella di Nasser negli anni ’60. Come possono 10.000 soldati riuscire dove l’esercito egiziano, forte di 70.000, ha fallito? Come possono 10.000 uomini riprendere il controllo di Sanaa e dello Yemen del Nord, quando 70.000 uomini e cinque anni di bombardamenti aerei non sono riusciti a piegare la guerriglia degli Zaydi/Houthi? La coalizione saudita è entrata in una via senza sbocco, calcando passo dopo passo il tragico percorso di Nasser.

Quest’avventura saudita in Yemen deve essere attentamente monitorata perché, unita alla caduta dei prezzi del greggio (il bilancio pubblico saudita è in pareggio col barile a 100$11, contro i 50$ attuali), rappresenta la prima, seria, minaccia alla dinastia Saud: un Vietnam vicino a casa, simile alla Repubblica Araba dello Yemen per Nasser o all’Afghanistan per i sovietici.

Merita infine un accenno la politica estera di Washington che, come abbiamo già anticipato, presenta forti analogie con il Regno Unito degli anni ’60, obbligato a gestire lo smantellamento dell’impero e della Pax britannica.

Reduci dalle cocenti sconfitte militari in Iraq ed Afghanistan (che oltre a mostrare al mondo l’inefficacia della macchina bellica a stelle e strisce, ne hanno anche minato le finanze pubbliche) e sicuri di raggiungere l’auto-sufficienza energetica entro il 202012, gli USA hanno infine scelto di abbandonare il Medio Oriente, curandosi solo che nessuna potenza regionale emerga come egemone o che altre aspiranti super-potenze (Cina e Russia) colmino la Pax americana in dissoluzione. Ça va sans rien dire che il metodo più efficace ed economico per conseguire il risultato consiste nel fomentare le tensioni religiose (sciiti contro sunniti, sunniti contro cristiani, ISIS contro islamici moderati) ed etniche (turchi contro curdi, iraniani contro arabi, arabi contro berberi, tribù contro tribù) cosicché la regione cada vittima di un processo di somalizzazione, scandito da guerre e pulizie etniche.

In quest’ottica si inquadra anche la politica di disgelo avviata dagli USA nei confronti dell’Iran. Finché Washington guardava al Medio Oriente in ottica imperiale era suo interesse sostenere la potenza regionale soccombente (l’Arabia Saudita) contro quella emergente (la Repubblica iraniana): diretta conseguenza di quest’approccio sono stati venti anni di sanzioni economiche e periodiche velleità di interventi militari e cambi di regime in Iran.

Nella seconda metà del 2013, in concomitanza all’avvio della destabilizzazione di Iraq e Siria attraverso l’ISIS, Washington riallaccia i rapporti diplomatici con Teheran in vista di una sua riammissione ai circuiti economici internazionali: gli strateghi angloamericani sono perfettamente consci che il greggio iraniano rimpinguerà le casse dello Stato consentendo di moltiplicare gli sforzi militari in Iraq, Siria, Libano e Yemen contro le monarchie del Golfo e l’ISIS. Paradossalmente, è proprio ciò che gli strateghi si attendono da Teheran.

Gli angloamericani non auspicano né un vittoria decisiva del Califfato e dei sauditi né degli iraniani, perché un potenza regionale egemone esprimerebbe allora una politica estera di grande respiro e minaccerebbe Israele. Piuttosto desiderano che ognuno dei contendenti ingaggi una lotta con l’avversario senza mai né vincere né soccombere: ecco spiegato perché  Washington si prodiga per disarcionare Assad e soffocare la ribellione degli Houthi (entrambi alleati dell’Iran) e contemporaneamente sigla l’accordo sul nucleare iraniano e rimuove le sanzioni economiche a Teheran. L’obbiettivo ultimo della strategia è che il conflitto saudita-iraniano si protragga al più lungo possibile, in modo che il vuoto lasciato dalla Pax americana sia colmato dal caos piuttosto che da un potenza rivale.

È superfluo dire che una simile strategia, oltre a comportare enormi costi umani (pulizie etniche, guerre, migrazioni di massa) e compromettere la sicurezza e l’economia di quei Paesi come l’Italia che affacciano sulle zone destabilizzate, è foriera di tempesta: da una situazione statica in cui ogni attore è disincentivato ad aggredire l’altro, si passa ad una situazione dinamica dove ognuno ha la possibilità di attaccare l’avversario se crede danneggiati i propri interessi o minacciata la propria sicurezza. Cosa accadrebbe, nell’attuale contesto mediorientale, se Tel Aviv e Riyad si sentissero con l’acqua alla gola?

mappayemen

1 http://www.presstv.ir/Detail/2015/06/17/416325/Yemen-Saudi-Arabia-Israel-United-States-United-Nations–

2http://www.defensenews.com/story/defense/international/mideast-africa/2015/08/03/united-arab-emirates/31070305/

3https://www.youtube.com/watch?v=RtOmEeeW7Lc

4https://www.youtube.com/watch?v=dxnRSY_DPVs

5https://www.youtube.com/watch?v=gYerF_51wOw

6https://www.youtube.com/watch?v=PrzZamWiHdU

7http://english.farsnews.com/newstext.aspx?nn=13940602000512

8https://www.youtube.com/watch?v=aExQNnYwc5E

9https://www.youtube.com/watch?v=7h4f0GZbDyo

10http://www.bloomberg.com/news/articles/2015-09-04/u-a-e-says-22-soldiers-fighting-for-coalition-killed-in-yemen

11http://www.bloomberg.com/news/articles/2015-08-21/how-much-longer-can-saudi-arabia-s-economy-hold-out-against-cheap-oil-

12http://www.cnbc.com/2014/01/04/us-to-achieve-energy-self-sufficiency-by-2020-exxon-mobil-ceo.html

2 Risposte a “Nelle sabbie mobili yemenite”

  1. Uno la legge, professore, e riscopre l’amore per la storiografia e l’analisi politica. Uno dei nostri tratti e’ quello di considerare i popoli non ebrei, non particolarmente intelligenti, se così posso dire. Ma qual’e’ l’interesse dei sauditi, la cui popolazione e’ triplicata in 40 anni facendone uno dei paesi più giovani del mondo, a fare guerre per interposta persona? Venite, fratelli egiziani che parlate la stessa lingua: iniziamo a svilupparsi insieme. Idem con tutti gli altri. Deporre le armi. E far fiorire il deserto.

    1. Grazie Willy. Il Medio Oriente, fino allo Yemen, è l’estero vicino dell’Italia: conoscerlo è fondamentale, anche perchè il prossimo conflitto mondiale potrebbere svolgersi proprio tra il Mediterraneo ed il Golfo Persico

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