Quella sera in Piazza Fontana: oltre “la strategia della tensione”

A distanza di cinquant’anni dalla strage di Piazza Fontana, l’Italia è ancora sovrastata dalla stessa cappa di disinformazione: “la strategia della tensione” che, portata avanti dallo Stato o perlomeno da ampi settori dello Stato, avrebbe dovuto facilitare una “svolta a destra” della politica, fermando l’avanzata del PCI nel mondo bipolare della Guerra Fredda. La strage di Piazza Fontana fu invece l’inizio di una campagna destabilizzante contro l’Italia che, dalla Libia alla Somalia, stava guadagnando molte posizioni internazionali cavalcando il “terzomondismo”. Le bombe cessarono nei primi anni ‘90 perché, distrutti la Prima Repubblica e lo Stato imprenditore, non servivano più.

Quei sei mesi del 1969 che segnarono i 20 anni successivi

Il 12 dicembre di cinquant’anni il salone della centralissima Banca Nazionale dell’Agricoltura fu devastato da un ordigno esplosivo: 17 morti ed un’ottantina di feriti segnavano l’inizio dei cosiddetti “anni di piombo”. La strage di Piazza ha tre livelli di interpretazione: salendo dall’uno all’altro, ci si avvicina sempre di più alla verità.

  1. Il primo livello, presto abbandonato già in quegli anni, è quello della strage “anarchica”, compiuta dal ballerino e bakuninista Pietro Valpreda.
  2. Il secondo livello è quello della strage “nera” compiuta da Ordine Nuovo, avvalendosi di ampie connivenze negli uffici dello Stato, in primis l’Ufficio Affari Riservati del Ministero dell’Interno con allora a capo Federico Umberto D’Amato. Tale livello è quello tuttora dominante: la cosiddetta “strategia della tensione”, per spaventare l’opinione pubblica, preparare il terreno per una svolta a destra (mai arrivata) e arrestare l’avanzata del PCI che, se fosse arrivato al potere, avrebbe messo in forse (ma sarà poi vero?) la collocazione dell’Italia nello schieramento occidentale, portando il Paese fuori dalla NATO.
  3. Il terzo livello è quello su cui abbiamo più volte scritto, in primis ricordando la triste fine di Aldo Moro che, lungi dall’essere un apatico e rassegnato meridionale, era in realtà una delle mente più fini e audaci della politica estera italiana. Il terzo livello colloca infatti la strage di Piazza Fontana all’interno dello scenario internazionale dell’epoca: come Piazza Fontana, anche tutti gli altri “misteri di Italia” trovano la loro spiegazione razionale negli equilibri del periodo e, in particolare, nella condotta italiana tra Malta, Libia, Somalia e URSS.

Questo sarà un lavoro veloce e quindi ricorreremo a tanti ritagli di giornale.

Agosto 1969: Aldo Moro entra alla Farnesina, all’interno dell’esecutivo di Mariano Rumor. Agli Esteri Moro rimane per i tre anni successivi. Tre anni decisivi per la politica estera italiana, considerati che gli ultimi “dividendi” della politica di allora sono stati incassati fino al 2011, soltanto otto anni fa, quando Muammur Gheddafi è stato prima rovesciato con un intervento NATO e poi brutalmente assassinato. È infatti proprio in Libia che deve essere collocato l’inizio del “terzo livello” della strage di Piazza Fontana.

Primi di settembre 1969: un colpo di Stato “filo-nasseriano” rovescia re Idris, installato sul trono di Libia dagli inglesi dopo la guerra. L’incruento putsch gode del pieno appoggio dell’Italia che, in quella fase, cavalca il nazionalismo arabo ed in particolare il nasserismo per guadagnare posizioni ai danni di inglesi e francesi. Una delle prime mosse dei “giovani ufficiali libici”, tra cui emerge ben presto un trentenne Muammur Gheddafi, è quella infatti di rescindere il trattato di sicurezza firmato con Londra nel 1953, obbligando gli inglesi a lasciare il Paese. Gli americani fanno buon viso a cattivo gioco, vuoi perché la nuova Libia si mantiene equidistante tra i due blocchi, vuoi perché “la quarta sponda” è sempre stata marginale nella geopolitica del Mediterraneo, vuoi perché sono anni davvero difficili per la superpotenza americana, alle prese col Vietnam ed un’economia claudicante.

L’Italia non lascia, ma raddoppia: a distanza di pochi mesi soltanto, la Somalia, che si stava spostando su posizioni sempre più filo-atlantiche, è teatro di un colpo di Stato: il presidente Abdirashid Shermarke è assassinato e tra le file dei “congiurati” emerge ben presto Mohammed Siad Barre, uscito dalla Scuola allievi sottoufficiali Carabinieri di Firenze. Come la Libia, anche la Somalia rientra dunque “nella sfera d’influenza italiana”, portandosi anch’essa su posizioni non allineate e ammiccando discretamente all’URSS. In neanche tre mesi l’Italia ha messo a segno due grandi risultati ed un terzo l’avrebbe conseguito negli anni successivi, sostenendo Dom Mintoff a Malta.

Che fare? Semplice, si ricorre al terrorismo, per tarpare le ali alla risorgente Italia. E si noti, per uscire dal solito provincialismo che affligge la modestissima “intellighenzia” italiana, che la medesima “strategia della tensione” con fini destabilizzanti è usata anche contro Germania e Giappone che, però, possono vantare una solidità delle istituzioni ed una tenuta sociale sconosciute all’Italia. Si arriva così a Piazza Fontana, che avrebbe dovuto avere anche uno strascico di sangue nella capitale.

E, si noti, l’attentato coincide con lo stesso giorno in cui si aprono a Mosca le trattative per il rinnovo dell’accordo commericiale italo-sovietico.

Inizia quindi la strategia della tensione volta non a impedire la conquista del potere da parte del PCI, ma a tenere perennemente sotto scacco l’Italia che, forte di una classe dirigente di livello e dell’economia mista eredita dal fascismo, proseguirà comunque la difesa degli interessi nazionali: nonostante il terrorismo “nero”, le Brigate Rosse, i “palestinesi”, Lotta Continua, etc. etc. Le bombe cesseranno solo nel 1993 quando, complice l’avvento del mondo unipolare, gli angloamericani saranno finalmente liberi di liquidare la Prima Repubblica (archiviando due correnti politiche, quella cattolica e quella socialista, che tanto avevano dato all’Italia) e smantellare lo Stato imprenditore. Se la Francia è stata oggetto di una violenta serie di attentati negli ultimi anni, tutto invece tace nel nostro Paese: perché, semplicemente, non servono le stragi per indirizzare la navicella Italia verso la tempesta perfetta.

3 Risposte a “Quella sera in Piazza Fontana: oltre “la strategia della tensione””

  1. Sante parole, lucide semplici luminose. Ti chiedo il permesso di dedicarle ai miei genitori che come tanti altri italiani del tempo avevamo capito molto fin da subito. Ricordo che nel ’75 alla vigilia delle votazioni che avrebbero portato il sorpasso del PC sulla DC e che avrebbero potuto inaugurare il “compromesso storico” c’era molta paura, tutti pensavano che ci avrebbero invaso. Come sappiamo al governo dell’URSS non c’era più baffone ma i suoi carnefici o almeno coloro che avevano ucciso la parte buona dell’era sovietica. Dunque anche quel momento è finito in via Fani e a fianco degli antichi magazzini di via delle botteghe oscure… Si molti italiani sapevano, oscuramente appunto ma sapevano con il loro cuore modellato sulla verità cristiana e sulla cultura che questa verità ha prodotto per secoli. Dici bene sui dividendi della politica di Moro che abbiamo incassato fino al 2011, vorrei sapere per quanto ancora incasseremo i dividendi dei secoli cristiani. Spero ancora in po’. Buon Natale caro Dezzani.

  2. L’analisi geopolitica non fa una piega e mi trova concorde.
    Quella sulla strategia della tensione e le bombe un po’ meno, perché cozza contro i fatti accertati.
    La colonizzazione dell’Italia è sempre stata portata avanti su più livelli, con scopi omogenei, ma non per questo univoci.
    La strategia della tensione si collocava all’interno del progetto operativo “stay behind”, che aveva in Italia il braccio operativo di Gladio; tale strategia era gestita dai servizi segreti atlantici e senza dubbio farina del loro sacco furono il terrorismo nero e rosso.
    Sulle responsabilità della cellula veneta di Ordine Nuovo, pesantemente infiltrata da servizi angloamericani ed italiani, vi sono ormai pochi dubbi, come ribadito dall’ultimo libro di Guido Salvini.
    Stay behind, strategia della tensione e Gladio (e quindi le bombe, le BR, le stragi ed i golpe progettati o minacciati) erano progetti e strutture pensati in funzione anticomunista, storicamente è un fatto accertato.
    Cozza con la sua ricostruzione l’accordo tra Moro e Saragat (notizia uscita recentemente) per cui da una parte si sarebbe mantenuto il segreto sulle responsabilità di piazza Fontana e dall’altra si sarebbero lasciati nel cassetto i progetti di golpe.
    Riguardo lo sviluppo economico italiano fino a fine anni 80 propongo un’analisi diversa:
    fino al crollo del comunismo, il fatto di avere in Italia il più grande partito comunista dell’occidente ha obbligato l’impero angloamericano a non ostacolare oltre il dovuto la crescita italiana, mantenendo livello economico e stato sociale adeguati, per mantenere l’equilibrio politico che si è retto per 50 anni, nell’ottica degli accordi di Yalta.
    È dopo l’89 che infatti salta l’equilibrio dì Yalta ed il pericolo rappresentato dal PCI (che peraltro implode da solo ed i cui nuovi dirigenti sono già tutti a libro paga imperiale) viene a cessare.
    Da quel momento non ci sono più freni alla predazione dell’Italia, viene liquidata la vecchia classe politica e gli equilibri che rappresentava e nuovi rappresentanti, preparati e progettati da tempo (il piduista Berlusconi da una parte e la sinistra ex comunista ed ex democristiana dall’altra), vengono messi in campo.
    Con la fine degli accordi di Yalta e del PCI scatta un’operazione che non ha niente a che vedere con la strategia della tensione e che segna la svendita e lo sfruttamento dell’Italia, fino al punto in cui siamo arrivati oggi.
    Le bombe del 92/93 non hanno niente a che vedere con quelle di piazza Fontana e della strategia della tensione, anche se gli ispiratori furono gli stessi.

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