Fallito colpo di Stato in Turchia: Erdogan assaggia il veleno americano

Per cinque anni la Turchia di Recep Erdogan è stato il retroterra per le operazioni di destabilizzazione dei vicini, sicura di poter allargare la propria sfera d’influenza se avesse assecondato i piani di Washington per balcanizzare la regione. Lentamente, Erdogan ha compreso che lo stesso veleno somministrato agli altri Paesi mediorientali, era in serbo anche per la Turchia, patria di cospicue minoranze religiose ed etniche. Quando il presidente turco ha meditato un radicale cambiamento di strategia, è stato organizzato il golpe del 15 luglio, coll’obiettivo di precipitare la Turchia nella guerra civile e ripetere lo scenario siriano o libico. Reprimendo il golpe, Erdogan ha vinto solo il primo round.

Un futuro siriano in serbo per la Turchia?

Sono passati cinque anni e mezzo dalle cosiddette “Primavere Arabe” che hanno stravolto il Medio Oriente ed è ormai possibile stabilirne con sicurezza gli obiettivi: le rivoluzioni colorate, di cui sono oggetto gli Stati arabi nei primi mesi del 2011, non sono finalizzate a rovesciare dittatori e presidenti a vita per sostituirli con governi eletti, espressione della Fratellanza Mussulmana tanto cara a Washington e Londra, bensì a destabilizzare tout court la regione. Defenestrati i vecchi leader che garantiscono l’ordine e l’unità, alimentati gli odi settari grazie al fanatismo della Fratellanza, precipitata l’economia nel caos, USA ed alleati puntano a smembrare i vecchi Stati, prodotto dell’epoca coloniale, lungo faglie etniche e religiose, così da coprire la ritirata dell’impero angloamericano con la balcanizzazione della regione.

Tipico, a questo proposito, è il caso della Siria, dove la “Primavera Araba” (2011) si evolve in guerra alimentata ad hoc tra sciiti e sunniti (2012), che, entrata in una fase di stallo, induce angloamericani e francesi a meditare di bombardare Damasco (2013), così da accelerare l’implosione del Paese secondo il copione già sperimentato in Libia. Se la fermezza russa evita il peggio, gli USA rispondono equipaggiando e finanziando l’ISIS (2014), che proprio tra Siria ed Iraq avrebbe dovuto costruire il suo Califfato. Senza il provvidenziale intervento di Mosca (2015), oggi la Siria sarebbe scomparsa dalle carte geografiche: al suo posto sorgerebbe uno Stato sciita-alauita sulla costa, uno Stato Islamico lungo l’Eufrate, un nord conteso tra curdi e turchi.

Veniamo così alla Turchia, finita in queste settimane sotto i riflettori dopo il fallito colpo di Stato del 15 luglio.

Gli angloamericani hanno gioco facile a coinvolgere la Turchia nei loro piani di destabilizzazione della regione: Recep Erdogan è, infatti, un personaggio naturalmente incline ai progetti imperiali (come testimonia il nuovo Palazzo Presidenziale inaugurato nel 2014, 320.000 m² di edifici) ed Ankara nutre storici appetiti sia sulla regione petrolifera di Mosul (oggi Iraq ed un tempo parte dell’impero ottomano), sia sulla città di Aleppo, di cui i turchi posseggono già il naturale porto, ossia Alessandretta (ceduta dai francesi alla Turchia nel 1939, in cambio della sua neutralità in vista dell’imminente guerra europea).

Aiutando ad esportare il caos nei Paesi limitrofi (con cui Erdogan aveva avuto a lungo ottimi rapporti, compresa la Siria di Bashar Assad), la Turchia spera che i suoi sogni di grandezza neo-ottomani si realizzino: architetto di quest’aggressiva politica estera è il professore Ahmet Davutoglu, intimo consigliere di Erdogan, poi ministro degli Esteri (2009-2014) ed infine premier (maggio 2014). Davutoglu è il primo a comprendere i progetti angloamericani in serbo per la regione e, di conseguenza, archivia in fretta la sua iniziale strategia del “zero problemi coi vicini”, concepita per fare della Turchia una potenza economia e commerciale, per sostituirla con un’ambiziosa politica dinterventismo nei Paesi limitrofi, così da fare della Turchia una potenza militare e territoriale.

La Turchia si trasforma nel naturale retroterra per i terroristi ed i ribelli sunniti che operano nel nord della Siria, nel comodo sbocco per il petrolio estratto dall’ISIS nei campi petroliferi siriani ed iracheni e nel principale punto di partenza per gli islamisti che nel 2015 salpano alla volta della Libia: senza il supporto di Ankara ed il continuo rifornimento di armi americane, l’Esercito Arabo Siriano avrebbe già da anni piegato l’insurrezione, il Califfato non avrebbe mai potuto spingersi fino alle porte di Baghdad e le roccaforti estremiste di Sirte e Derna difficilmente avrebbero potuto consolidarsi.

È una strategia, quella turca, molto pericolosa.

Ankara, infatti, assecondando i progetti angloamericani di balcanizzare la regione, somministra ai vicini un veleno che, all’occorrenza, potrebbe essere somministrato anche alla Turchia: come è possibile smembrare l’Iraq tra sciiti, curdi e sunniti; come è possibile smembrare la Siria tra alauiti, curdi e sunniti; così è possibile smembrare anche la Turchia, patria di 56 milioni di turchi sunniti, 15 milioni di curdi e tra i 6 ed i 10 milioni di arabi aleviti, un ramo dell’islam sciita.

Lungi dall’essere un monolitico Stato-Nazione, la Turchia è un delicato mosaico di etnie e religioni che, sottoposto a violente sollecitazioni, può facilmente esplodere, proprio come i vicini. È la consapevolezza di quanto la Turchia sia vulnerabile che induce Erdogan a mantenere buoni rapporti con la Russia, nonostante i due Paesi si trovino sui due lati opposti della trincea in Siria: quando Vladimir Putin nel dicembre del 2014 gli presenta il gasdotto Turkish Stream, sostituito di quel South Stream sabotato dalla UE/NATO, il “sultano” è ben lieto di accettare.

Trascorre poco tempo prima che la situazione, per Erdogan, volga al peggio.

Nel luglio del 2015 il PKK, il partito comunista curdo, rompe la tregua in vigore da due anni e riprende le operazioni di guerriglia nel sud-est della Turchia. Agli inizi dell’autunno il Cremlino, preoccupato dall’evidente logorio dell’Esercito Arabo Siriano, opta per un intervento militare diretto in Siria, che si concretizza in puntuali, ma massicci, raid aerei: in poche settimane l’aviazione russa, colpendo le infrastrutture e le fonti d’introito dell’ISIS (il contrabbando di greggio), riesce dove gli angloamericani avevano fallito in dodici mesi. Il Califfato dà preoccupanti segnali di cedimento, rischiando di vanificare gli sforzi di chi, come la Turchia, ha investito ingenti capitali politici e finanziari nello smembramento della Siria e dell’Iraq: è questo il contesto in cui matura nel novembre del 2015 l’abbattimento del Su-24 russo ad opera di un caccia turco.

L’ordine di abbattere il bombardiere russo parte niente meno che dal premier Ahmet Davutoglu1 che, data la natura dei rapporti e le implicazioni politiche del gesto, deve aver preventivamente concordato l’operazione con Recep Erdogan. I due, come emerge subito dalla copertura fornita loro dal segretario della NATO, Jens Stoltenberg, e dal presidente americano, Barack Obama, agiscono in coordinazione con Washington, sicuri, evidentemente, di ricevere qualcosa in cambio. I rapporti tra la Turchia e la Russia, infatti, precipitano, tanto che il ministro dell’Energia russo annuncia a distanza di una settimana la sospensione del progetto Turkish Stream: gli angloamericani ottengono così ciò che desideravano. Ed i turchi? Le promesse di Washington sono mantenute?

Non si direbbe, perché nei mesi successivi all’abbattimento del Su-24 russo, Ankara tenta di:

Entrambe le iniziative, un’evidente violazione del diritto internazionale, necessitano della copertura diplomatica e militare degli Stati Uniti e Recep Erdogan è probabilmente convinto di ottenerla, come legittima contropartita per l’abbattimento del bombardiere russo. Invece, Barack Obama firma ad aprile una tregua con Vladimir Putin, col chiaro intento di scongiurare qualsiasi mossa azzardata da parte turca e saudita.

Non solo: Washington, in ossequio alla sua strategia di spartire la Siria e l’Iraq lungo faglie etniche e religiose, dà il proprio sostegno militare ai curdi siriani dell’Unità di Protezione Popolare (YPG), in stretto contatto con il PKK turco: il rischio che a ridosso del confine siriano si formi un’entità territoriale curda, induce Erdogan a bombardare il YPG. “Dispute Over Kurds Threatens U.S.-Turkey Alliance” scrive il New York Times a metà febbraio.

Ricapitoliamo: il sud-est della Turchia è sostanzialmente una zona di guerra dopo che il PKK ha riaperto le ostilità, gli americani sostengono i curdi siriani che potrebbero in qualsiasi momento saldarsi all’insurrezione dei curdi turchi, Ankara non ha ottenuto alcun guadagno territoriale a discapito dei vicini, il Paese è più che mai isolato sul piano diplomatico, considerato che i rapporti sono inesistenti con Damasco, sempre più freddi con Washington e Bruxelles e pessimi con Mosca, Teheran e Baghdad.

È questo il quadro in cui Recep Erdogan, a distanza di cinque dall’inizio del conflitto siriano, si pone l’interrogativo: non è, forse, che gli USA mi sta usando? Non è, forse, che i piani americani per creare un Kurdistan nel cuore del Medio Oriente concernono anche la Turchia?

Le risposte che si dà Erdogan lo spaventano a tal punto da ribaltare di 180 gradi la strategia seguita fino a quel momento. Ai primi di maggio il premier Ahmet Davutoglu, architetto dell’aggressiva politica estera sulla scia di quella angloamericana e responsabile dell’abbattimento del Su-24, è obbligato alle dimissioni dalla carica di governo e dai vertici del partito AKP.

Estromesso Davutglu da qualsiasi incarico, dopo sette anni di potere, non che resta che fare tabula rasa della sua eredità politica. Il nuovo premier, infatti, Binali Yildirim, si affretta a riallacciare i rapporti diplomatici con Israele (interrotti da sei anni, dopo il caso della Freedom Flotilla) nella speranza di ingraziarsi la potente lobby ebraica americana ed a “normalizzare” i rapporti con la Russia: a fine giugno Vladimir Putin riceve una lettera di scuse formali per l’abbattimento del Su-24, viatico per il viaggio a Mosca che il presidente turco vuole compiere ai primi di agosto2. Forse per rappresaglia al disgelo tra Turchia e Russia, un commando di terroristi dell’ISIS assalta il 28 giugno l’aeroporto Ataturk, uccidendo 42 persone.

A questo punto, a Erdogan non che resta che disinnescare il fronte siriano, anche perché la situazione nel sud della Turchia si sta facendo critica (la città di Cizre, 100.000 abitanti nei pressi del confine siriano, è quasi rasa al suolo dall’artiglieria governativa nel conflitto col PKK). Il 13 luglio, si consuma così il colpo di scena: il premier turco Yildirim, dopo cinque di ostilità, apre al riallacciamento dei rapporti diplomatici con Damasco: “Syrian rebels stunned as Turkey signals normalisation of Damascus relations”, scrive il The Guardian, riportando lo sconcerto dei ribelli siriani (e dei loro mentori angloamericani) per l’inaspettata apertura di Ankara al governo siriano. Già perché, senza il supporto turco, la residua insurrezione islamista ad Aleppo ed Idlib è destinata a spegnersi in poche settimane.

Come impedire che Ankara si riappacifichi con Damasco, mettendo definitivamente la parola “fine” al progetto di balcanizzare la Siria? Semplice: destabilizzando a sua volta la Turchia.

Dopo cinque lunghi anni al servizio degli angloamericani, Ankara sperimenta così su stessa il veleno inoculato alla Siria: il 15 luglio, scatta il golpe che di propone, formalmente, di rovesciare Recep Erdogan. L’obiettivo più recondito, però, è scatenare la guerra civile in Turchia.

Un golpe per gettare la Turchia nel caos

La sera del 15 luglio va in scena il golpe militare, condotto da alcune frange delle forze armate che si presentano come il “Consiglio di Pace Turco” e finalizzato, secondo la versione ufficiale, a “proteggere la democrazia e ristabilire i diritti civili”.

Alcuni analisti si affrettano a ricordare che si tratta del quarto colpo di Stato dalla fondazione della repubblica e che i militari, garanti della laicità delle istituzioni, hanno sempre ricondotto il Paese verso la democrazia dopo una breve reggenza. In realtà, rispetto agli scorsi decenni, lo scenario politico turco è totalmente cambiato: più polarizzato e radicalizzato. Come si vedrà nel corso del golpe, è pressoché impossibile che i sostenitori islamici di Recep Erdogan, maggioritari nelle zone interne dell’Anatolia e con significative presenze anche nelle città costiere, accettino il colpo di mano dei militari senza reagire. Anzi, la loro reazione è addirittura attesa ed auspicata da chi ha concepito il putsch.

Lo scopo più recondito del colpo di Stato, così improvvisato da indurre alcuni osservatori a parlare di una messinscena ordita dallo stesso Erdogan, non è, difatti, l’instaurazione di una dittatura militare (per cui i golpisti, una frazione minoritaria delle forze armate, non hanno neppure i mezzi), ma la destabilizzazione politica del Paese, tesa a fomentare la guerra civile tra oppositori e sostenitori di Recep Erdogan, sul modello delle rivoluzioni colorate già sperimentate in Siria, Egitto e Libia.

I golpisti si lanciano nella notte tra il 15 luglio ed il 16 luglio in alcune operazioni tanto spettacolari quanto superflue (il bombardamento del Parlamento turco, l’occupazione dei ponti di Istanbul e di piazza Taksim), in altre più o meno utili alla riuscita di un classico colpo di Stato (l’occupazione della TV e della radio di Stato, l’isolamento dell’aeroporto internazionale Ataturk), ma trascurano, incredibilmente, un passaggio chiave, che dovrebbe avere la massima priorità: l’eliminazione o la cattura di Recep Erdogan e delle più alte cariche dell’esecutivo.

Il presidente turco, in vacanza nella località balneare di Marmaris dove sfugge senza difficoltà ad un commando inviato a catturarlo, può così apparire alla CNN turca (evidentemente interessata a diffondere il suo messaggio) ed incitare i cittadini alla resistenza.

Nella notte, i partigiani di Erdogan obbediscono all’appello e scendono nelle piazze. Le probabilità di una guerra civile, vero obbiettivo del putsch militare, sembrano alte: i violenti scontri tra manifestanti e forze di polizia da un lato, e soldati dall’altro, mietono 290 vittime e 2.000 feriti entro l’alba del 16 luglio. Di “principio di guerra civile” parlano apertamente i media internazionali, dall’americana CNN alla nostra La Repubblica.

Se la situazione non degenera verso scenari libici, è solo grazie al sangue freddo degli oppositori e dei seguaci di Erdogan, che evitano di abbandonarsi in quelle ore ad un “regolamento di conti” fratricida. Chi ha meglio descritto la dinamica del golpe, è il giornalista turco ed ex-ufficiale della Marina Erol Mütercimler, che all’agenzia russa Sputnik ha dichiarato:

It was a revolt, not a coup, and its strategy was aimed at failure. People were forced to take to the streets, including 90 percent of those supporting the AKP [the Justice and Development Party]. It was a rehearsal of the civil war which could be unleashed if the AKP supporters clashed with their opponents”.

Una “rivolta” militare, insomma, votata al fallimento, concepita unicamente per fomentare l’odio tra partigiani ed avversari di Recep Erdogan, nella speranza di innescare la scintilla che incendi la società turca. Immaginiamo, per un momento, che il putsch fosse effettivamente degenerato in una guerra civile: come si presenterebbe oggi la Turchia? Sarebbe un campo di battaglia tra laici e islamici, tra città secolari della costa ed Anatolia religiosa, tra polizia ed esercito, tra esercito e curdi, tra turchi sunniti ed arabi aleviti. Sarebbe, in sostanza, un Paese non lontano dalla dissoluzione, come lo è stato per lungo tempo la Siria.

Fallito il tentativo di innescare la guerra civile, Erdogan può dare libero sfogo alle sue pulsioni autoritarie quando, al contrario, la situazione gli consiglierebbe la massima cautela e magnanimità per non dividere ulteriormente la società. Seguendo liste di proscrizione forse compilate già da tempo, metà dei generali e degli ammiragli delle forze armate sono arrestati assieme a10.000 altri soldati, 1.700 militari sono licenziati, 2.700 magistrati allontanati dai loro uffici, 800 messi in cella, 21.000 docenti sospesi e decine di giornalisti tratti in arresto. Infine, il 21 luglio, è dichiarato lo stato d’emergenza, che fa della Turchia il secondo Paese della NATO (dopo la Francia) ad essere governato secondo misure eccezionali.

Ed i mandanti del putsch, quelli che auspicavano di innescare una guerra civile in Turchia, chi sono? Non ha dubbi Recep Erdogan che indica nel miliardario Fethullah Gülen, suo vecchio mentore politico, l’architetto del golpe. Gülen, da anni residente in Pennsylvania, è il venerando leader del movimento sufista Hizmet, che opera con scuole private e madrasse in 180 Paesi del mondo e figura tra i principali strumenti impiegati dalla CIA per la penetrazione politica dell’Asia centrale3.

La paura e lo sconcerto per lo scampato pericolo sono tali, però, da indurre le autorità turche ad alzare il tiro, spingendosi dove fino a quel momento sarebbe stato impensabile: il 16 luglio, quando i cadaveri di manifestanti e soldati sono ancora caldi, il ministro del Lavoro, Suleyman Soylu, accusa esplicitamente gli USA di aver orchestrato il tentato colpo di Stato. L’imbarazzata difesa del Segretario di Stato John Kerry (che declassa a “pubbliche insinuazioni” le accuse del governo turco) non impedisce a Recep Erdogan di attaccare lancia in resta: nei giorni successivi il giornale filo-governativo Yeni Safak addita l’ex-generale a quattro stelle John Francis Campbell come la mente del putsch e, il 29 luglio, è lo stesso presidente turco ad accusare il generale Joseph Votel, capo del CENTCOM, di connivenza con i golpisti.

La cartina di tornasole per testare il deterioramento dei rapporti turco-americani è la base aerea di Incirlik, situata in prossimità del confine siriano ed impiegata dagli USA per la “lotta all’ISIS” (leggi: la destabilizzazione della Siria): il 16 luglio la base aerea è chiusa ed i voli dei jet americani sospesi, il 17 luglio il generale turco responsabile dell’installazione è arrestato, sebbene l’aviazione statunitense riprenda le consuete operazioni, il 31 luglio la base è circondata da 7.000 uomini delle forze speciali turche, mentre circolano voci di un secondo colpo di Stato in preparazione, il primo agosto, infine, il capo di Stato Maggiore delle forze armate americane, il generale Joseph Dunford vola ad Incirlik per una mediazione in extremis. La situazione, al momento, è ancora in divenire.

Certo, soffocando sul nascere il putsch militare ed epurando massicciamente le forze armate e la magistratura, Recep Erdogan ha consolidato il proprio potere, ma l’impressione prevalente è che il “sultano” abbia vinto solo il primo round e che il presidente turco non disponga di quelle capacità indispensabili per conciliare un Paese sempre più fratturato. La Turchia è ufficialmente entrata, insieme alla Siria, all’Iraq, all’Egitto ed alla Libia, nella lista dei Paesi mediorientali da “balcanizzare”: le probabilità che siano a breve ricreate le condizioni per innescare una guerra civile, sono molte alte.

 

The Project for the New Middle East

 

1http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/11/24/siria-aviazione-turca-abbatte-jet-da-guerra-vicino-alla-base-russa-di-latakia/2246575/

2http://sputniknews.com/politics/20160703/1042359917/turkey-russia-meeting.html

3http://www.boilingfrogspost.com/2011/01/06/turkish-intel-chief-exposes-cia-operations-via-islamic-group-in-central-asia/

25 Risposte a “Fallito colpo di Stato in Turchia: Erdogan assaggia il veleno americano”

  1. Ottima analisi Dezzani, l’aereoporto però è usato anche per il traffico di Eroina dall’Afghanistan, gli permetteranno di chiuderlo e uscire dalla NATO?
    Ho grossi dubbi in merito, a meno che non succeda qualche colpo di scena, visto che siamo in ballo, magari qualcuno sbarca in Turchia, Cinesi? Russi?…

    Saluti

  2. Tacito disvela l’ultima fase del disfacimento dell’America da noi controllata fin dalla fondazione.
    Dopo 300 anni, la Turchia da noi controllata a fondo con il nostro fondatore della Repubblica, passa con la Russia. E dunque con la Cina.

    Fra pochi mesi, Donald, che nel generale lì volato ha il suo mentore, metterebbe fine a tutto. Incluse la Svizzera, la Fed e il suo sistema, e il finto Papa. Non gli resta che un’opzione.

    1. @Willi Muenzenberg il 3 agosto 2016 a 8:07 pm
      Fra pochi mesi, Donald, che nel generale lì volato ha il suo mentore, metterebbe fine a tutto.

      Se riuscirà ad insediarsi nello Studio Ovale, cosa che non credo, ma non perchè il Trump non possa vincere le elezioni ma perchè ‘quelli là’ faranno succedere delle bruttissime cose in terra USA tali per cui l’Obama verrà riconfermato nella carica.
      ‘Quelli là’ hanno già ampiamente dimostrato il loro grande potere ed il diprezzo nei confronti della vita anche dei propri concittadini.

  3. x Willi.

    potresti argomentare più dettagliatamente l’interessante affermazione del finto papa?

  4. la mia domanda e’ perche’ erdogan ( e ancora piu’ stupidamente i sauditi )si sia lanciato in questa “avventura” del ” nuovo medio oriente” quando non solo il REALE programma americano era ben noto , ma quella cartina era nota tutti fin dal 2003 pare riportata proprio da alcuni scandalizzati militari turchi a cui era stata ” riservatamente” sottoposta nei loro “stages a fort bragg”.

    E’ quindi evidente la capacita’ psicologicamente manipolatoria di ” amici” e ” nemici” degli amerikani , essendo i soggetti piu’ deboli appunto quelli piu’ irriflessivi e avventuristi , annoverando nel numero di questi gonzi non solo i suddetti governi “islamisti” ma anche altri ” in europa ed in asia .
    Ed e ‘ proprio da questa capacita’ che bisognerebbe tutti guardarsi per prima cosa.

  5. Una delle analisi più lucide che è dato leggere sulla situazione turca. Anzi, forse la più lucida (non ho letto se Limes e Caracciolo hanno scritto qualcosa, ma pur se medium intelligente deve comunque attenersi a certe cautele prudenziali implicite per la stampa mainstream).
    Il problema è che cosa è meglio per noi, per noi europei, nei due opposti scenari paventabili.
    1) Se Erdogan non ce la fa a consolidare il potere scoppia il caos etnico e confessionale, la balcanizzazione di cui dice Dezzani. Con conseguenze prevedibili di destabilizzazione di un’area del mondo così cruciale e così vicina a noi.
    2) Se la repressione e la ripresa del potere invece funziona, avremo un gigantesco stato confessionale non solo alle porte dell’Europa, ma già con un piede dentro: il sultano sta già alzando la voce sulla questione dei visti; e nel maggiore Stato europeo esiste già di fatto una seconda turchia, in grado di mobilitare centinaia di migliaia di turchi-tedeschi, come s’è visto nei giorni scorsi. Seconde e terze generazioni ufficialmente integratissime ma rimaste sostanzialmente turche nel cuore, nonché islamiche. Dimostrazione del fatto che se un individuo è nato in un Paese europeo, e ne parla bene la lingua, perfino ne conosce bene le leggi, non implica affatto che costui SIA un europeo, come ci raccontano da anni i cantori della società globalizzata, i mass media, gli intellettuali, gli insegnanti, i preti, ecc. O perlomeno la convivenza (con coloro che europei lo sono per davvero) può funzionare fintantoché la cultura autoctona è forte e la situazione è calma. In caso di disordini bellici internazionali, sobbillazioni da parte di servizi segreti, o semplice mutamento di clima, quella massa esplosiva momentaneamente inerte può diventare innescabile.
    Qualche leader politico si è posto il problema? Qualcuno dei cosiddetti ‘intellettuali’ riesce a dare previsioni e possibili soluzioni al di là di facili slogan e ottimismi beoti (o incitamenti allo scontro di civiltà, che del multiculturalismo beota sono il pendant) ?

    1. @Tsqn il 4 agosto 2016 a 12:53 am
      O perlomeno la convivenza (con coloro che europei lo sono per davvero) può funzionare fintantoché la cultura autoctona è forte e la situazione è calma.

      Infatti e l’espressione melting pot era riferita, da colui che la coniò, ai soli popoli europei che si mescolano fra loro senza nessun problema.
      Citazione dal blog Cofrab di Zibordi:
      Un “Melting Pot” di europei (secondo la famosa definizione di Israel Zangwill che nell’originale non era “l’America è un Melting Pot”, ma l’America è un Melting Pot degli Europei”.
      Fonte ( a fondo pagina): Immigrazione e Islam

  6. Adesso tutto è più chiaro: i pezzi del puzzle hanno trovato il loro giusto posto. Grazie, Federico e buone vacanze!!!

  7. Ormai Federico ci ha abituati fin troppo bene…questi capolavori di analisi geopolitica, sempre circostanziati dalle citazioni di fonti le più disparate (ma come riesci a metabolizzare tutti i media del globo terracqueo?) li diamo quasi per scontati, quando invece dovrebbero suscitare ogni volta la nostra ammirazione. Magari non si può condividere tutto (ma un buon 98-99% sì ;-)…), ma certo il lavoro dietro le quinte è immane, come è ammirevole la sintesi che riesce a trarne ogni volta Federico.

    1. Goditi le analisi, caro Davide, perché sono gli ultimi mesi (o settimane) del blog…

      1. Spero questo decisione sia solo frutto di scelte personali e non di imposizioni provenienti da qualche centro di potere infastidito..

        1. Produrre contenuti di qualità costa tempo ed impegno. Per 2 anni si può fare, non di più.

        2. Se hai bisogno di una collaborazione, ai limiti della mia ignoranza e per il tempo che trovo, posso provarci….

          Ciao

        3. ovviamente non discuto la tua decisione.
          ma devo dire che mi dispiace di perdere un riferimento cosi brillante quale tu sei.
          se ci ripensi e mi associo a Jean per aiuto.

      2. splendida analisi, come sempre.
        ma più di Erdogan, Nato ed Europa a me impensierisce questo:

        …perché sono gli ultimi mesi (o settimane) del blog.

        spero non vorrai privarci della tua lucidità?

        1. Ma perché Federico, capisco la fatica, so cosa significa portare avanti un progetto da soli, ma possibile che non ci sia un aiuto, un amico, ci vorrebbe uno staff vero e proprio, ma non so fino a che punto si riuscirebbe a mantenere poi la genuinità del prodotto. Mi dispiace molto, ma sento anche che ci sono altri motivi validi tuoi personali. Noi perderemo una preziosa fonte d’informazione, tu forse troverai successo o serenità altrove. Ti auguro ciò che desideri.

  8. La situazione, appunto, è ancora in divenire.
    Ma già risulta chiaro che il sultano ha colto l’occasione per defenestrare non solo i gulenisti ma anche vasta parte di oppositori laici, applicando liste di proscrizione precedentemente elaborate.
    Auspicabile soluzione?
    Alla egiziana 2013, con il popolo che insorge contro l’egemonia dell’islamismo militante e apre la strada ad un Al-Sisi locale.
    Difficilmente realizzabile, però, almeno fino all’avvento di una crisi strutturale nel Paese (socio-economica e/o politico-militare).

    Cordiali saluti

  9. È un po che seguo il Blog. Sempre molto lucide e interessanti le analisi. Sono d’accordo pressoché su tutto; in queste settimane mi sono fatto anche un’idea che gli stessi servizi americani tramite una classica triangolazione abbiano “avvisato” Erdogan dell’imminente golpe, perché l’obiettivo non era prendere il potere subito, ma semplicemente provocare una sua reazione autoritaria per delegittimarlo praticamente su tutta la stampa, e magari rimandare la defenestrazione in un secondo atto. Che ne pensi?

    1. Ci sta. La reazione di Erdogan va sicuramente nella direzione auspicata da Washington: il Paese è sempre più diviso ed inquieto. Al prossimo tentativo di rivoluzione colorata o golpe, è probabile che la situazione degeneri.

      1. nel momento in cui Erdogan si appresta a fare visita “all’amico Putin”, c’è bisogno di aggiungere altro?

        (ilVelino/AGV NEWS/Sputnik) Mosca, 08 AGO – Il presidente russo, Vladimir Putin, e il suo omologo iraniano, Hassan Rouhani, discuteranno la possibilita’ di fornire assistenza al capo dello stato turco, Recep Tayyip Erdogan. Lo ha annunciato il vice ministro degli Esteri di Teheran, Ibrahim Rahimpur. “Noi vorremmo, al fianco del presidente Putin, assistere Erdogan nel creare buone condizioni e risolvere i problemi, in modo che possa prendere la decisione giusta – ha affermato -. Si tratta di questioni regionali, dall’Iraq alla Siria. Penso che sia Rouhani sia Putin sono pronti a fornire a Erdogan assistenza e a mostrare sostegno. Il supporto che Putin e Rouhani potrebbero fornire non puo’ essere garantito ne’ dagli arabi ne’ dagli stati occidentali. La nostra regione – ha concluso – ha bisogno che Russia, Iran e Turchia abbiano buoni rapporti”. Rahimpur ha aggiunto che questa assistenza si concretizzerebbe innanzitutto in “suggerimenti” alla leadership di Ankara. “Poi si passera’ alle questioni e al sostegno economici. Infine, le relazioni diventeranno stratetiche e interesseranno ogni settore”. Il vice ministro ha osservato che l’Iran avrebbe voluto che la Turchia partecipasse ai colloqui Iran-Russia-Azerbaijan a Baku. “Se le condizioni fossero state normali, anche Erdogan avrebbe preso parte a questo incontro “.

  10. Ho letto con grande attenzione il tuo articolo, che riporta parecchie cose che non conoscevo, o che conoscevo in modo superficiale, o che conoscevo in modo “drogato” dai mezzi di (in)formazione classici. A questo punto, mi interesserebbe parecchio sapere come leggeresti, nell’ottica di questa analisi, la questione delle “contrattazioni” UE/Turchia in merito all’arma migratoria… hai il tempo per rispondermi?

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