Mezzogiorno di fuoco in Europa

Sotto il pallido sole di gennaio, tra le rovine dell’Acropoli di Atene che proiettano ombre ancora lunghe sui selciati, si aggirano gringos dai lunghi pastrani e con cappelli dalle larghe falde calati sulla fronte: dai loro cinturoni in pelle penzolano le fondine dai cui fanno capolinea i calci dei revolver. Si osservano, si studiano e cercano di capire come giocare una partita che sarà decisiva: in ballo c’è il futuro dell’Europa e gli assetti del mondo di domani.

Chi sono i gringos di Atene? Quali le alleanze? Chi resterà in piedi?

Alexis Tsipras, il Greco col Fucile. Se Syriza avesse vinto le elezioni legislative greche negli anni ’50 o ’60 a quest’ora il Parlamento sarebbe già stato sciolto, la giunta dei Colonelli instaurata ed i militanti del partito scappati sulle montagne dell’entroterra o fuggiti in Albania: tutto si sarebbe risolto nel giro di 48 ore (guerriglia sulle montagne esclusa) e si sarebbe tornati al business as usual. Purtroppo la Grecia non è terra vergine come l’Ucraina e se nei paesi dell’eurozona abbiamo finora assistito a golpe bianchi (la sostituzione di Silvio Berlusconi e George Papandreou con due uomini di Goldman Sachs, Mario Monti e Lucas Papademos, quando minacciarono nel novembre 2011 di lasciare l’euro), il “tintinnar di sciabole” non è ancora tornato di moda, per il semplice fatto che finora non c’erano partiti politici che spaventassero l’establishment euro-atlantico (gli M5S sono intimi di Via Vittorio Veneto).

Syriza è senza dubbio la prima incognita che appare sul panorama politico da anni e, sebbene abbia già ammorbidito la linea iniziale, è piena di incertezze: il manifesto del 2012[1] contemplava l’uscita di Atene dalla NATO (già promessa da Andreas Papandreu negli anni ’70 e mai attuata), il ritiro di tutti i soldati greci dalle missioni estere e l’abolizione di ogni cooperazione militare con Israele. Sul piano economico, il partito di Alexis Tsipras è ancora più urticante e le prime mosse del neo-premier hanno mostrato ma la sua eterodossia: stop alle privatizzazioni, rifiuto delle ricette della Troika e smantellamento di quanto fatto dal predecessore Samaras. Come se non bastasse, il giovane premier ha dovuto allearsi con i Greci Indipendenti di Panos Kammenos per raggiungere la maggioranza parlamentare: il matrimonio d’interessi con un partito nazionalista, populista, cristiano ortodosso e per di più simpatizzante di Vladimir Putin, ha scatenato le ire di tutti i media politicamente corretti d’occidente che, se devono coprire d’ufficio la desertificazione economica e demografica in atto nel Sud-Europa, non possono però perdonare chi si allontana dal pensiero unico in tema di costumi sessuali e religione.

Alexis Tsipras siede su un debito pubblico relativamente piccolo in termini assoluti (317 mld) ma gioca all’attacco perché sa che, in base alle sue scelte, può cadere il più grande tabù della zona euro: l’irreversibilità della moneta unica, venduta come dogma dalle élite di Bruxelles nonostante i trattati prevedono che sia possibile uscirne tramite l’abbandono negoziato dell’Unione Europea[2]. In questo momento Alexis Tsipras è tollerato da Washington perché sia Obama che circoli del Council on Foreign Relations/Bilderberg vedono in lui l’ultimo strumento a disposizione per piegare la linea dell’austerità tedesca ed arrivare all’agognata ma ormai irrealistica unione fiscale. Alexis Tsipras è però conscio che se giocasse fino in fondo la partita, uscendo dall’euro, non diventerebbe solo automaticamente inutile ma si trasformerebbe pure in un peso morto: sarebbe relegato da Washington tra i paria assieme ai defunti Hugo Chavez e Muammur Gheddafi, a Cristina Kirchner e Evo Morales, a Bashar Assad e Recep Erdogan, a Viktor Yanukovich e Vladimir Putin. È proprio con quest’ultimo, infatti, che Alexis Tsipras deve avere allestito la rete di salvataggio per la Grecia e per Cipro, indissolubilmente legate dalle finanze[3], dalla consanguineità e dalla religione: se Atene lascerà l’euro, poche ore dopo sarà costretta a farlo anche Nicosia data l’interdipendenza del sistema bancario. Mosca, che condivide il cristianesimo ortodosso con i due ribelli dell’euro, è già presente finanziariamente e militarmente nella zona[4] e sarebbe disposta ad accoglierle sotto il proprio ombrello: le due facce della stessa medaglia, euro e NATO, potrebbero quindi sciogliersi quasi simultaneamente nel mar Egeo ed il rifiuto del neo-governo greco di votare l’inasprimento delle sanzioni UE contro la Russia, è solo l’antipasto di quanto probabilmente avverrà.

Angela Merkel, lo sceriffo controvoglia: la povera Angie è bersagliata da tutti gli euro-scettici che vedono in lei un novello Fuhrer in gonnella, desiderosa di assoggettare l’Europa con i diktat dell’austerità. Pochi capiscono che senza Angie, intima di Bilderberg e Washington grazie cui ha raggiunto i vertici della CDU a colpi di scandali politici, l‘euro sarebbe già morto da un pezzo, data la ritrosia degli elettori tedeschi a finanziare i disavanzi altrui e la diffidenza di importanti fette dell’establishment tedesco verso il progetto di un’Europa federale. Pressata dalla forza crescente dei movimenti anti-euro domestici (Alternative für Deutschland) che dilagherebbero qualora la Germania acconsentisse all’ennesima dilazione/cancellazione del debito greco, Angela Merkel sarà costretta a mantenere la linea del rigore, vedendo le carte di Alexis Tsipras e forzandolo ad un eventuale abbandono nell’euro. Per impedire che l’edificio collassi dal tetto alle fondamenta (euro>Unione Europea>NATO), avanzano ipotesi in Germania di uno smantellamento ordinato della moneta unica, in maniera tale da conservare almeno le strutture di Bruxellese: affinché si avveri sarebbe necessaria però una difficile ed immediata modifica dei trattati a 27.

Angela Merkel, inimicandosi ampie porzioni della potente Confindustria tedesca, dei social-democratici e della stessa CDU, ha poi avvallato poi il golpe ucraino degli USA che, dando un boccone in pasto allo sciovinismo tedesco e rispolverando l’armamentario da Guerra Fredda, speravano di sedare così le spinte centrifughe dell’eurozona. Il piano, nonostante la non casuale recrudescenze della guerra nel Donbass di questi giorni, è fallito.

Ora, grazie ad Angela Merkel, la Germania si trova nella non invidiabile condizione di essere circondata da ogni lato: Greci che rifiutano l’austerità, anglo-americani che esigono che Berlino si faccia carico dell’eurozona e acconsenta all’unione fiscale, russi che aizzano i greci in chiave anti-UE e anti-tedesca. Angela Merkel sa che se cede alle richieste greche, domani pioveranno i diktat spagnoli, portoghesi o italiani per un allentamento delle misure d’austerità che consentono il mantenimento dell’euro, attraverso la distruzione della domanda interna ed il riequilibrio delle bilance commerciali. La strada è quindi stretta e passa nello spingere Alexis Tsipras a lasciare l’eurozona di sua sponte, evitando l’errore che commise la Germania nel 1914 invadendo per prima il Belgio. La tenuta dell’eurozona e degli assetti europei sarà allora messa a durissima prova. È alta la probabilità che Angela Merkel non sopravviva politicamente allo scioglimento dell’eurozona, in quanto i suoi ex amici anglo-americani non le perdonerebbero mai la fine del loro progetto per un’Europa federale, neoliberista ed anglofona.

Obama, la City e Wall Street, i gringos dello status quo: la partita per loro si sta mettendo davvero male e sudano freddo essendo la posto in gioco altissima: gli assetti geopolitici maturati dopo la sconfitta della Germania del 1945 e la dissoluzione dell’URSS nel 1991: se l’euro crolla e trascina con sé Unione Europea e NATO, c’è il forte rischio che la Germania torni indipendente ed il processo di integrazione del continente euro-asiatico abbia un prepotente impulso. I rapporti con Angela Merkel, quella che nel 2003 scriveva un editoriale sul Washington Post in favore all’invasione anglo-americana dell’Iraq[5], si sono incrinati da tempo proprio sui temi dell’eurozona: secondo Washington, Berlino avrebbe dovuto concedere molto di più ai suoi partner dell’eurozona e guidarli, un passo alla volta, verso gli Stati Uniti d’Europa. L’austerità imposta dalla Germania per mantenere il regime a cambi-fissi dell’euro, sebbene costi poco agli elettori tedeschi, impoverisce però progressivamente la periferia dell’unione ed alimenta pericolosi populismi, dalle pulsioni ovviamente anche anti-americane ed anti-FMI. Il primo segnale di frizione fra Angela Merkel ed i suoi ex-protettori c’è stato quando Edward Snowden ha rivelato che l’NSA spiava il telefono della cancelliera; quindi è stata la volta dello scandalo “Luxleaks” concernente accordi fiscali firmati in Lussemburgo nei primi anni 2000 dal governo di Jean-Claude Juncker, neo-presidente della Commissione UE pro-austerità scelta da Angela Merkel; nel frattempo gli anglo-americani, forse ricattandola forse rimettendola in riga, trascinano Angie e Berlino nell’avventura ucraina, che costringe l’UE ad accollarsi anche il mantenimento di Kiev per cui mancano i soldi. La nuova Guerra Fredda non dà però i frutti sperati: su posizioni filo-UE e anti-russe rimangono solo Angela Merkel, i golpisti di Kiev, la Polonia ed i Paesi Baltici; Italia e Francia patiscono pesantemente le sanzioni alla Russia che, anziché sedare le spinte centrifughe dell’eurozona, alimentano i populismi anti-UE; Mosca entra prepotentemente nella partita, finanziando i partiti anti-euro e, probabilmente, stipulando accordi con Syriza per il suo abbandono dell’euro.

Syriza è quindi tollerato da Obama e dalla finanza anglofona finché funge da pedina anti-tedesca: significativa è a questo proposito l’intervista[6] rilasciata dal governatore della Banca d’Inghilterra, l’ex Goldman Sachs Mark Karney, dove si invoca la fine dell’austerità e la cessione di sovranità dagli Stati nazionali agli organismi di Bruxelles per una maggiore unione fiscale e politica. Affinché siano fatte concessioni ad Atene e sia preservata l’integrità dell’eurozona, scrivono anche gli editoralisti del Financial Times[7] e di Bloomberg[8]: la catastrofe è vicina come non mai, fermatevi per favore prima che sia troppo tardi! Non c’è nessuno infatti cui mancherebbe l’euro come a loro: imposizione di liberalizzazioni, deregolamentazioni, privatizzazioni, rapine del risparmio delle famiglie e dei beni statali, privazione di dosi crescenti di sovranità, manipolazione della politica estera, etc. etc.

I mercati finanziari, sedati anche dalla liquidità immessa sul mercato da FED-BCE-BOJ-BOFE, non segnalano al momento rischi di contagio per l’euro-periferia, nonostante la situazione economica e finanziaria sia molto peggiore oggi che nel 2012: fallito il tentativo di ottenere gli Stati Uniti d’Europa a colpi di spread, è ormai chiaro che una nuova crisi del debito sovrano non partorirebbe alcuna federazione ma anzi accelererebbe l’implosione dell’euro.

Qualora si verificasse l’implosione dell’euro e la Russia di Vladimir Putin si proponesse in parallelo come polo aggregante per le nazioni in uscita dall’Unione Europea, gli anglo-americani non avrebbero che una sola scelta davanti a sé per mantenere l’egemonia sull’Europa: il salto di qualità nella guerra in Ucraina ed il conflitto militare(convenzionale o nucleare tattico?) con Mosca.

Questa volta, inoltre, il tempo gioca contro Washington in un eventuale redde rationem con Mosca: ogni giorno che passa il progressivo abbandono del dollaro da parte della Russia, della Cina e degli altri Paesi emergenti nelle transazioni internazionali, mina alle fondamenta la macchina imperiale.

Vladimir Putin, il cosacco dagli occhi di ghiaccio. A Mosca qualsiasi dubbio è caduto: si scrive Unione Europea e si legge NATO, si scrive euro e si legge scudo missilistico americano. Il golpe ucraino e la guerra a bassa intensità in Ucraina vanno relazionate allo stato comatoso in cui versa l’Unione Europea: è il tentativo di rinsaldare gli stati attorno alle istituzioni di Bruxelles, riscaldate e riproposte ai clienti in chiave-anti russa. A Mosca seguono con interesse le convulsioni dell’eurozona sapendo che, in caso di suo disfacimento, le possibilità di cooperazione economica e politica con il Vecchio Continente aumenterebbero esponenzialmente: il sogno russo non è solo il riavvicinamento con qualche piccolo stato dell’Europa centrale e meridionale (Ungheria, Cipro e Grecia), ma l’alleanza con uno almeno dei tre maggiori paesi continentali: Germania, Francia o Italia.

A Mosca sanno però che l’operazione altererebbe gli equilibri mondiali e scatenerebbe forse la guerra convenzionale di cui le sanzioni economiche alla Russia sono l’antipasto. Vladimir Putin è però un giocatore paziente: attende il lento sfaldamento dell’Ucraina, vende una centrale nucleare a Budapest oggi, stipula una linea di salvataggio con la Grecia domani e invia i Tupolev Tu-95 davanti alle coste inglesi dopodomani. Un’Europa delle nazioni e una Germania senza Angela Merkel sono il suo sogno proibito. Sa però che non è remota l’ipotesi che il collasso dell’euro o l’estremo tentativo per salvarlo  passi attraverso un’escalation militare.

Mario Draghi, l’illuminato pistolero della loggia euro: il venerabile presidente della BCE non si raccapezza del fatto che, pur avendo seguito per filo e per segno la scaletta dell’euro-crisi redatta da tempo, rischia di assistere allo sfascio della poltrona su cui siede. Nel 2011 ha inviato letterine a destra e manca invocando le riforme strutturali tanto care ai neoliberisti seguaci di Robert Mundell; ha complottato per estromettere dalla carica i premier ostili all’euro; ha lasciato che gli spread si incendiassero per ottenere liberalizzazioni del mercato del lavoro, privatizzazioni e cessioni di sovranità; ha spento l’incendio nel luglio del 2012 quando non si sono ottenuti gli Stati uniti d’Europa e l’eurozona rischiava il collasso; ha infine varato il tanto atteso allentamento quantitativo per porre rimedio alla deflazione, nonostante gli strali dei tedeschi.

Quello che poteva fare, il venerabile Maestro l’ha fatto: è conscio meglio di chiunque altro che senza trasferimenti fiscali ed unione politica la fine dell’eurozona è vicina. Può solo contare sul soccorso della FED che, testimoniando la gravità della situazione, ha lasciato che l’euro di deprezzasse del 15% toccando quota 1,15$-1,1$, quando nei momenti più bui della passata euro-crisi (estate 2011 ed estate 2012) non aveva mai sforato gli 1,2$. Il deprezzamento dovrebbe rinvigorire le esportazioni dell’area euro e portare sollievo come un pannicello caldo, ma la contemporanea discesa del greggio favorisce l’importazione di letale deflazione.

 

Conclusione: nei prossimi mesi si decideranno non solo i destini dell’eurozona ma anche gli assetti internazionali del XXI secolo. La convulsioni dell’euro e dell’Unione Europea rimetteranno prepotentemente in moto la storia e chi ha tutto da perdere (Washington) sarà tentato dall’escalation militare contro la principale potenza europea concorrente (Mosca) per evitare di perdere il controllo del continente. Chi sparerà il primo colpo? E chi rimarrà in piedi?

[1]    http://links.org.au/node/2888

[2]    http://archiviostorico.corriere.it/2011/novembre/12/Puo_Uscire_dall_Euro_Restando_co_9_111112007.shtml

[3]    http://temi.repubblica.it/limes/cipro-ammette-la-crisi-e-chiede-soldi-alleuropa/36254?printpage=undefined

[4]    http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2014-10-20/sale-tensione-turchia-e-cipro-e-russia-manda-flotta–175331.shtml?uuid=AB92c24B

[5]    http://www.wsws.org/en/articles/2003/02/cdu-f25.html

[6]    http://www.repubblica.it/economia/2015/01/29/news/bank_of_england_carney_grecia_austerity-106084352/

[7]    http://www.ft.com/intl/cms/s/0/44c56806-a556-11e4-ad35-00144feab7de.html#axzz3QG3qvLNK

[8]    http://www.bloombergview.com/articles/2015-01-26/greece-s-election-is-rebuke-to-europe-and-austerity